Dieci pensieri corsari
Il primo di è essi è che il volontariato è una risorsa vitale nelle nostre società, essendone parte della trama e dell’ordito, ma non può sostituire in alcun modo la prestazione a retribuzione. A partire dal fatto che il suo ripetersi può invece costituire la facile scorciatoia per non pagare ciò che invece è un’attività lavorativa, derubricandola ad altro, ossia ad atto di “buon cuore”. Una società basata sull’utilitarismo – nessun giudizio di valore in merito – nel momento in cui stende tappeti di retorica al “sacrifico” di certuni rischia di nascondere la sottrazione di valore a carico degli altri. Nessun sistema sociale, peraltro, può basarsi sul pur lodevole mecenatismo. Come esiste una surreale disposizione d’animo ad un inesistente statalismo assistenzialistico, che da sé dovrebbe – per maturato obbligo – coprire tutto e, soprattutto tutti (con quali risorse, di grazia?) al pari si accompagna la fiaba di un fantasioso “mercato” (che nessun riscontro ha a che fare con i mercati reali, tra di loro interconnessi) che da sé allocherebbe in divenire, secondo intrinseca giustizia redistributiva, risorse “ a ciascuno secondo i suoi bisogni”. Sono entrambe costruzioni ideologiche, che esulano da qualsiasi verifica dei fatti. Il problema della giustizia sociale va riformulato alla radice, partendo proprio dalla situazione che la pandemia sta generando nelle singole società (ed in quella mondiale). Il secondo richiama al fatto che le pandemie, storicamente, segnalano molti nodi, a partire dallo stretto rapporto tra dimensione sanitaria collettiva (salute pubblica, sistemi di prevenzione e di cura e così via) e capacità economica. Non si può dare una efficace risposta sul primo piano se il secondo va progressivamente congelandosi. Ma la salute in regime pandemico, richiede molto spesso una sorta di “coma farmacologico” dell’attività sociale e, con essa, di quella economica: un gatto che si morde la coda, in buona sostanza. Rimane il fatto che – terzo pensiero – in Italia, tuttavia, se dovesse proseguire lo stallo obbligato di buona parte delle attività economiche, verranno a mancare le risorse per fare fronte agli impegni economici e finanziari dello Stato: per essere chiari, a dare credito a molteplici fonti, le amministrazioni pubbliche hanno un’autonomia di cassa limitata, dell’ordine di due o tre mesi. Se non riprendessero i flussi in entrata (tra i quali quelli fiscali, previdenziali e quant’altro, legati non solo alla momentanea contingenza ma alla previsionalità sulla tassazione delle attività economiche presenti e in divenire) sarà impossibile continuare a mantenere le prestazioni vigenti, di ogni ordine e grado: Non si tratta di tirarsi i capelli anticipatamente ma di comprendere, ancora una volta, come i piani delle relazioni collettive, nelle nostre società, siano strettamente interconnessi. Quarto passaggio: il lockdown può reggere per un certo periodo: non potrà funzionare solo come mera imposizione coattiva poiché, sul versante della collettività in quanto tale, si basa comunque sul presupposto che i più si obblighino a distanziamenti sociali senza che ci sia qualcuno a verificare direttamente che lo stiano facendo per davvero. Non solo sarebbe altrimenti impossibile sul piano materiale ma renderebbe la società al pari di una prigione dalla quale, per paradosso, il desiderio diffuso, tra i molti, sarebbe infine quello di infrangere i vincoli (l’esatto opposto di qualsiasi politica di quarantena). Ragion per cui, ed è il quinto pensiero, il lockdown è accettabile se ad esso si accompagna la plausibile ipotesi del suo esaurimento (o comunque una progressiva attenuazione) in un lasso di tempo ragionevole. Non solo per permettere legittimi calcoli personali, senza i quali peraltro la “normalità” quotidiana recede, ma anche e soprattutto per dare un senso alle privazioni dettate dalle circostanze. Il timore pandemico funziona fino al momento in cui le singole persone, e con esse i gruppi sociali, non avvertono la forza crescente di una pressione opposta, quella che deriva dall’angoscia da isolamento e, con essa, il dirompente bisogno di “rompere le righe”, anche a potenziale rischio di ammalarsi e di ammalare. Lo “stare a casa”, sesto passaggio, è un precetto legittimo ma che deve comunque confrontarsi con il punto di saturazione di cui si diceva poche righe fa: la pandemia è, al netto degli infiniti riscontri sanitari, questa condizione di sopravvenuta incertezza: non possiamo dire quando l’emergenza finirà, rischiando però che la condizione di sospensione (civile, professionale, sociale, economica, e quant’altro) nella quale ci troviamo alimenti, progressivamente, una relazione a spirale; isolamento, deprivazione, depauperamento (non solo economico ma anche relazionale), aggressività e così via. La peggiore prospettiva – settimo momento di riflessione – alla quale, con il trascorrere del tempo, le società in quarantena si approssimano, è quella di alimentare – non importa quanto involontariamente – un catena di transizioni che dall’iniziale crisi sanitaria si trasformi in economica, poi in retributiva e occupazionale, quindi sociale e infine civile. Una catena di questo genere va interrotta al pari di quella dell’infezione. Poiché è pandemia quest’ultima ma lo è anche quella di ordine sociale. La fragilità, ottava riflessione, è intrinseca ai sistemi complessi, basati su equilibri mutevoli, dove i punti di sintesi e di interconnessione sono mutevoli per loro stessa essenza. Un sistema è non democratico quando la trasformazioni di essi avviene in assenza di contrattazioni tra parti distinte, titolari dichiarati di interessi in competizione, bensì in virtù di un’esclusiva imposizione (non importa quanto necessaria anche agli occhi medesimi di chi ne subisce gli immediati effetti). Un’ulteriore sollecitazione: attenzione al ricorso irragionevole ed inflazionato alle metafore belliche: non è vero che esse corroborino gli sforzi. Se con il passare del tempo le cose non migliorano, le energie si esauriscono e in quell’esercito che, malgrado il suo impegno, non giungono notizie di miglioramenti tangibili, sopravviene lo scoramento e quel potente calo di forza psichica e poi fisica che conosciamo come depressione. C’è chi ha osservato, d’altro canto, che «la guerra è una delle poche attività umane a cui la gente non guarda in modo realistico; ovvero valutandone i costi o i risultati. In una guerra senza quartiere, le risorse vengono spese senza alcuna prudenza. La guerra è pura emergenza, in cui nessun sacrificio sarà considerato eccessivo. Trattare una malattia come fosse una guerra ci rende ubbidienti, docili e, in prospettiva, vittime designate. I malati diventano le inevitabili perdite civili di un conflitto e vengono disumanizzate appena, per usare le parole di Susan Sontag, “perdono il loro diritto di cittadinanza da sani per prendere il loro oneroso passaporto da malati”». Ultimo pensiero: lo spazio dell’incertezza, quello che viene governato con il ricorso a provvedimenti dell’eccezione, giustificati dalle situazioni di inderogabilità e improrogabilità dettate dalle circostanze straordinarie, è esattamente il luogo dell’arbitrio istituzionalizzato. Esistono nella storia contemporanea dittature compiaciute, che si proclamano come tali, e condizioni di sospensione durature del diritto, i cui effetti si misurano solo sul lungo periodo. Ad essere sottoposta ad una torsione di diritto, oggi, non è tanto la socialità come tale bensì il diritto alla privatezza, attraverso la deroga permanente dalla sua tutela. A questi e ad altri ordini di considerazione è bene non rispondere a scatto, aderendo o rifiutando, cercando da subito, ossessivamente, di trovare una qualche “morale” e, con essa, un giudizio perentorio e definitivo. Pandemia è anche ciò che ci mette nella condizione di non potere scegliere con immediata chiarezza. Meglio risparmiarsi le retoriche e cercare di rimanere asciutti nello sforzo di comprensione della realtà, non cercando di affrontare una situazione del tutto inedita solo con il vecchio armamentario. Si uscirà da questo stallo anche quando riusciremo a comprendere e comprenderci diversamente da come abbiamo fatto fino ad oggi. Non è uno sforzo da poco, è una ragione per continuare a rispondere attivamente alla pandemia (che non è problema esclusivamente sociale, vale la pena di ripeterlo).
Claudio Vercelli