Pesach e la tradizione
Nessuno avrebbe mai immaginato nella nostra generazione che ci saremmo apprestati a fare il Seder di Pesach richiusi nelle nostre case e senza le persone a noi più care. Una strana sensazione, che abbiamo però già sentito dal racconto diretto di chi ha vissuto la clandestinità della Shoah o l’abbiamo letta dalle condizioni di vita di coloro che sfuggivano all’Inquisizione dei Torquemada.
La ritualità del Seder, specie quando fatto con protagonisti di diverse generazioni, vedeva ruoli per noi scolpiti nelle menti. Il capo famiglia che fa il Kiddush, le donne che ci aiutano a lavarci le mani, i bambini che cantano Manishtanà, il minuzioso racconto dell’Uscita dall’Egitto, preceduto dalle Dieci piaghe, fino ai canti popolari del “Capretto” e di “Uno Chissà” recitati nei diversi dialetti dell’Italia ebraica.
Non posso non commuovermi, ma sono certo che non sarò il solo, al pensiero dei miei genitori Emanuele z.l. e Gioia Simchà z.l., che con mesi di anticipo si preparavano alla prima sera. Mio padre raccoglieva tutti bambini delle famiglie coinvolte, non erano mai meno di 40 persone e in case piccole. A ognuno di noi veniva assegnato un pezzo che dovevamo minuziosamente studiare grazie ai nostri Morim e Morot delle scuole ebraiche. Le Haggadot, che ancora conservo, portano segnati a matita coloro che avrebbero poi letto, con ripetute cancellazioni, specie sui pezzi in cui bisognava avere una bella voce, come il Bezet Israel. La particolarità del nostro Seder è che non ricordo mai una sola volta che non ci fossero non solo “ospiti” ma amici cari di famiglia, soprattutto vi erano a turno illustri ecclesiastici. Monsignori, cardinali, suore. Uno fra tutti era il professor Vittorio Emanuele Giuntella di benedetta memoria. A lui veniva affidata la lettura commossa, con quella sua folta lunga barba bianca, dell’aggiunta all’Haggada sul ricordo dei Martiri che combatterono nel Ghetto di Varsavia. Era curioso come altri ospiti di turno, sempre non ebrei come lui, vedendolo così coinvolto ed avendo un volto ascetico, a volte pensavano fosse un rabbino perché in quel momento tutti con le lacrime agli occhi, ci alzavamo e poi cantavamo alla fine della sua lettera Ani Maamin. Curioso come lui – fervente cristiano e credente – prima di darci l’intonazione, recitava anche in italiano, la traduzione “Io credo sempre fermamente nella venuta del Messia”. Cosi come non ricordare l’allora semplice prelato e tra i fondatori della Comunità di S.Egidio, oggi vescovo di Frosinone e presidente della Commissione Episcopale della Conferenza italiana per l’ecumenismo e il dialogo Ambrogio Spreafico, che quando veniva letta l’Haggadà la seguiva tutta leggendola in ebraico.
Oggi invece non solo i Sedarim li faremo ognuno a casa propria ma non potremo stare con i nostri cari, specie quelli anziani e siamo logorati dall’idea che non potranno forse fare il Seder come si dovrebbe perché li abbiamo abituati ad uscire d’obbligo dalla mitzvà grazie ai loro figli e sopratutto nipoti, oggi molto più preparati dei loro nonni grazie alle scuole ebraiche.
Pesach è la festa della Libertà e domani è Shabat Hagadol. La libertà noi la proclamiamo iniziando il Seder che serve proprio a ripercorrere oggi ciò che conquistammo allora sotto i Faraoni, come se noi stessi stessimo conquistando la Libertà e vivendo in “diretta” il miracolo di H. Quando ero piccolo e mio cugino David Piazza ripeteva questo concetto all’inizio del Seder non ero così convinto che si potesse fare nostra una esperienza a distanza di millenni. Oggi ne comprendo meglio il significato. La libertà che celebriamo non è solo quella di poter fare ciò che si vuole ma anche di rimanere noi stessi e di non omologarci a modelli altrui. La libertà è paradossalmente scegliere di essere yehudim nonostante le avversità, sia quelle contro il Popolo ebraico ma anche quelle contro l’Umanità, come oggi è il Covid 19. La libertà è non vergognarsi di mangiare kasher per non imbarazzare l’amico che ci vuole ospitare a cena o di violare lo shabbat perché altrimenti qualcuno può offendersi che non gli rispondiamo al telefono. Ho già citato nel mio primo editoriale su questo portale i Responsa di Rav Horschì durante la Shoah. Storie incredibili di Emunà. Di quell’ebreo che voleva mettere i Tefillin, nonostante i nazisti per giocare gli avessero amputato un braccio e chiedeva come assolvere a questa importante Mitzvà. Per questo m’indigno di chi fa dei post irriverenti su Facebook contro l’Assemblea dei rabbini d’Italia (ARI), colpevole secondo questi ignoranti solo perché ha sentito la necessità di spiegare che, seppur in una condizione cosi drammatica, è assolutamente vietato usare smartphone o tablet per connettersi con i nostri cari affinché non si sentano soli. Io non giudico chi vuole fare questa scelta, anche se temo sia stata dettata dopo una improvvida ed inopportuna intervista (decisamente smentita e immediatamente ritirata da chi l’aveva pubblicata) alla nostra presidente dell’Ucei ai media, ma perché ha generato disprezzo con parole ancor più feroci circolate sui social contro i rabbini in genere da parte di qualcuno che scrive anche su questa rubrica.
L’ARI aveva dovere di fare chiarezza e si rivolgeva a tutti ma comunque quegli ebrei disorientati da quell’intervista che, timorosi e rispettosi dello shabbat e dei moadim rischiavano di fare una Averà.
Poi ognuno fa ciò che vuole, ci mancherebbe, ma rimane un fatto privato e chi usa disprezzo e ironia per chi è fedele alle regole ancora non è uscito dall’Egitto e forse oggi mi aiuta a capire ciò che significa ogni anno fare il Seder per conquistare la nostra libertà e il miracolo per aiutare questi ebrei a ritrovare la vera libertà che ci offre Pesach.
Mio padre concludeva solennemente il Seder con le parole “L’anno prossimo a Yerushalaim. Leshanà abbaà leyerushalaim” per poi intonare l’Hatikvà e concludere con la berachà per tutti presenti, come usava fare mio nonno Rav Riccardo Pacifici z.l.
Questa è la tradizione che ha unito ogni ebreo da sempre, anche quello più lontano, anche quello che magari il Seder non lo ha mai fatto, ma non ha mai spento la fiammella di sentisi parte dello stesso destino e con rispetto.
Riccardo Pacifici, commendatore al merito della Repubblica italiana