Studio e rispetto delle tradizioni, l’esempio ebraico di resilienza
“Uno degli strumenti di resilienza dell’ebraismo, il cuore dell’ebraicità, è lo studio: l’impegno a capire le cose senza la pretesa che una volta capite si risolvano. È un elemento che ci dà forza, ci rende consapevoli, non ci abbatte nella disperazione e nel pensiero che tutto sia assolutamente inutile ma, dall’altro lato, non ci porta nemmeno al delirio di onnipotenza e alla convinzione che alla fine se io so allora tutto sarà risolto”. Il suggerimento di rav Benedetto Carucci Viterbi, in questi giorni in cui le informazioni vorticano attorno a noi e cerchiamo di capire l’emergenza che ci ha travolto, è mantenere l’approccio di chi studia, consapevole di non sapere ma impegnato a capire. “Lo studio, in particolare nell’ebraismo, ci ricorda che non possiamo sottrarci all’obbligo di tentare di capire, ma sapendo bene quale è il nostro posto. Studiare ci tiene lontano sia dai faciloni che ritengono che tutto sia risolvibile e tutto si capisca ma anche dai disperati che gettano la spugna. Ci permette di trovare un equilibrio” sottolinea il coordinatore del Collegio Rabbinico Italiano. Con l’aiuto di rav Carucci Viterbi e dei rabbini rav Roberto Della Rocca, rav Riccardo Di Segni e rav Giuseppe Momigliano, abbiamo cercato di capire se dalla tradizione ebraica si può trarre un messaggio di resilienza in questo momento di grande difficoltà.
“La nostra storia è il paradigma della resilienza. – spiega rav Della Rocca, direttore dell’area Educazione e Cultura dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane – Basti pensare che la Haggadah, che leggeremo le prime due sere di Pesach, e che ci vede protagonisti diretti dell’esodo dall’Egitto, è stato invariabilmente letto nei secoli: anche nei momenti più tragici gli ebrei non hanno cessato di insegnare ai propri figli, durante il Séder, che l’Eterno continuava a liberare noi dalla schiavitù e che noi eravamo liberi”.
“In questi giorni di isolamento, terribili e angoscianti siamo spinti a di soffermarci a riflettere, tra le tante cose, sul senso della nostra esistenza e della nostra precarietà – aggiunge il rav – Affanno, ansia, desiderio di captazione, caratterizzano i rapporti con le persone e con i progetti e finiscono spesso per coprirli, per renderli inaccessibili e per farsi divorare da questi. Questa quarantena può costituire una pausa momentanea per ascoltare la nostra voce interiore, un’interruzione, per chiederci chi siamo e dove stiamo andando, nel timore che l’agitazione, le energie profuse, i conflitti intrapresi (che la maggior parte delle volte non hanno neppure un perché), non ci facciano dimenticare i valori che giustificano la nostra stessa esistenza”.
Un invito a cercare valori più profondi, a ripensare il nostro tempo, il significato del lavoro, arriva anche da rav Giuseppe Momigliano, rabbino capo di Genova e assessore al Culto UCEI. “Al momento è molto difficile trovare un senso preciso di cosa sta accadendo, trovare delle risposte definite. Siamo nel mezzo della tempesta. Credo che il richiamo dei Maestri, oltre a seguire le indicazioni della scienza, della medicina, sia di prendersi del tempo per guardare al di là dell’emergenza, scavare verso qualcosa di più profondo. Questa pandemia sta sconvolgendo il mondo intero, anche i paesi dell’Occidente dove pensavamo che la precarietà della vita fosse un pericolo lontano da noi. E invece le troviamo così vicino, alla porta di casa, se non dentro. E questo deve farci riflettere. Portarci a una ricerca di valori più profondi, di spiritualità, di senso della vita”. Il suggerimento del rav è quello di riprendere in mano i passaggi della Torah che pensiamo di conoscere, in particolare Bereshit (Genesi). “Sono racconti in cui la Torah ci dà una prospettiva universale: D-o ha posto l’uomo al centro per lavorare e prendersi cura della Terra, ci ha dato lo Shabbat. Dobbiamo riflettere sul senso di questi elementi, dobbiamo tornare a riconsiderare il tempo della nostra vita, il tempo del lavoro, i nostri ritmi, ricordandoci di dare spazio alla dimensione della famiglia, a quella umana”. E ancora, “rileggiamo la storia della Torre di Babele, con l’umanità che spinge per andare sempre più in alto e compiere un progetto irrealizzabile. C’è qualcosa in questo passaggio che parla dello sviluppo dell’uomo moderno; che ci invita a riconsiderare le nostre vite oggi”.
L’attenzione alla propria identità, in particolare a quella ebraica, senza perdere di vista l’impegno sociale è l’invito di rav Di Segni, rabbino capo di Roma. “Prima di tutto non bisogna perdere di vista l’obbligo di Tzedakah (giustizia sociale), ancor più importante oggi in questa crisi sanitaria ed economica. Poi, riflettere su un punto: in questi giorni ci sono una quantità di discussioni su numerosi aspetti rituali di Halakhah da osservare in queste condizioni drammatiche: come possiamo fare tefillah se non c’è minian, come potevamo leggere la Meghillah a distanza, come si può fare il kaddish, adesso con Pesach come si può fare il Seder. Qualcuno ha considerato queste discussioni come una caduta di tono, un perdere di vista la gravità del momento. Io credo che su queste cose valga invece la considerazione opposta. L’attenzione ai nostri riti è proprio l’esempio di resilienza. In tempi molto peggiori di questi, quando c’era la Shoah, quando era tutto impossibile o quasi, si è giocato tutto sul quasi, su cosa si poteva fare o meno in condizioni estreme. Perché? Perché dobbiamo fare di tutto per mantenere la nostra cultura. La propria identità diventa il segno della nostra dignità”. Poi il rav ricorda come un obbligo ebraico sia diventato il primo consiglio per proteggersi in questa pandemia: “La nostra tradizione ha portato avanti l’obbligo della netilat yadayim (lavaggio rituale della mani) in opposizione al cristianesimo, nato proprio con la polemica su questo obbligo. Ora, qual è la prima regole che è stata data in queste settimane? Lavatevi le mani. Noi abbiamo portato avanti questa norma, essenzialmente di pulizia materiale e spirituale. Siamo stati i primi a dare certe norme dunque e sarebbe assurdo rinunciare proprio adesso alle nostre tradizioni”.
Daniel Reichel
(Nell’immagine una sessione di studio al Collegio Rabbinico Italiano prima dell’inizio dell’emergenza)
(5 aprile 2020)