Domande per Pesach
Le cose che scrive Gavriel Levi su La Stampa su Pesach e sulla solitudine di chi fa il seder in questi tempi del coronavirus sono come sempre profonde e stimolanti, e hanno interrogato anche me, laica e lontana dalle preoccupazioni per la continuità del rito. Perché le sue considerazioni riguardano quanto di più profondo vi è nel rito, la trasmissione della memoria e le modalità di questa trasmissione, quella fra vecchi e bambini in particolare. Un rovesciamento del rapporto tra le generazioni, come quello che avviene oggi isolando per precauzione i bambini dai nonni, cosa comporta per la memoria e la sua condivisione? Come condividere da lontano? Basta Zoom, potremmo aggiungere noi, o serve qualcosa di più profondo, di più interno ai meccanismi della condivisione, dell’apprendimento del ricordare? Io vi ho letto, in filigrana, un superamento del rito stesso, un toccare il senso profondo della memoria. Senza famiglia riunita intorno alla tavola, con domande e risposte che aleggiano come fantasmi: “Questo Pesach sarà diverso – scrive – perché ognuno, bambino o anziano, potrà pensare che anche l’altro deve uscire dall’Egitto”. Questo pensiero, che dovrebbe esserci sempre, è forse facilitato dall’assenza, dalla solitudine? Ma, lo sappiamo, ho forse letto ciò che chi scriveva non voleva dire; quando lanci una parola non sai sempre che echi susciterà. Hag Sameach.
Anna Foa