Plagio e originalità

emanuele calòQuesta sarebbe l’origine dei famigerati Protocolli dei Savi di Sion: Maurice Joly, Dialogue aux enfers entre Machiavel et Montesquieu ou La politique de Machiavel au XIXe siècle, par un contemporain, 1864: «Machiavel: Le fait d’organiser une société secrète, ou de s’y affilier, sera puni rigoureusement. Montesquieu. Bien, pour l’avenir; mais les sociétés existantes? Machiavel. J’expulserai, par voie de sûreté générale, tous ceux qui seront notoirement connus pour en avoir fait partie. Ceux que je n’atteindrai pas resteront sous le coup d’une menace perpétuelle, car je rendrai une loi qui permettra au gouvernement de déporter, par voie administrative, quiconque aura été affilié».
Nel 1868, Herman Goedsche, impiegato delle poste prussiane, scrive un romanzo con uno pseudonimo (Sir John Retcliffe), nel quale descrive una cerimonia occulta nel cimitero di Praga ma, nel farlo, copia Joseph Balsamo, di Dumas, con la differenza che, al posto di Cagliostro, inserisce dei rappresentanti delle Dodici Tribù d’Israele i quali, nemmeno a dirsi, preparano un complotto. Cinque anni dopo, un libello russo riprende la storia, ma non più sotto forma di romanzo, ma di cronaca. Indi, un funzionario russo, Pierre Ivanovich Rachkovsky, immette ancora in circolazione la vicenda. Infine un monaco, Serghei Nilus, mette in bella tutta la storia e la diffonde col titolo dei Protocolli dei Savi di Sion, recante un piano ebraico per il controllo del mondo. Come notava Umberto Eco (Sei passeggiate nei boschi narrativi, in parte ripreso ne Il Cimitero di Praga) è sorprendente che non si fosse capito fin da principio che si trattava di un collage da fonti eterogenee; mi domando inoltre come avessero fatto ad attribuire ad un gruppo di ebrei il controllo del mondo, quando è evidente che sono solo io a controllarlo.
In materia, il bravo Roberto Caso ha curato il volume collettaneo “Plagio e creatività: un dialogo tra diritto e altri saperi”, Quaderno n° 98 del Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università degli Studi di Trento, 2011, dove si fanno nomi, cognomi ed esempi. È pur vero, però, che l’ambiente italico è particolarmente indulgente col plagio per la stessa ragione che lo porta ad essere indulgente con chiunque violi la legge, eccezion fatta per il reato d’opinione in quanto, come diceva Flaiano, i fascisti si dividono in fascisti e antifascisti. Caso conclude la sua introduzione asserendo che “La libertà, si sa, può essere abusata. In un’epoca rivoluzionaria al giurista tocca governare il confine tra libertà e abuso facendo appello alla propria creatività. Occorre ripensare alle fondamenta il diritto d’autore e, di conseguenza, anche il suo controverso rapporto con il plagio”. La mia creatività – ammesso che esista – mi porta spesso a constatare che anche in ambito giuridico c’è chi si ispira al prossimo, ben sapendo che l’ispirazione è più un eufemismo che una licenza poetica; tant’è che, stanco di essere copiato (ma il plagio è una patologia recidiva), avevo scritto “La nobile arte del copista”, in Contratto e Impresa, 2002, p. 439, ospitato dal sommo Francesco Galgano, il quale conosceva la materia per essersene autorevolmente occupato (v. Tutto il rovescio del diritto, Milano, 2007), forse senza immaginare che col tempo si sarebbe addivenuti ad un ridimensionamento della piaga. D’altronde, il titolare di una penna ispirata che non avesse un plagiatore personale verrebbe in qualche modo penalizzato perché, secondo un pensiero attribuito ad Oscar Wilde, “imitation is the sincerest form of flattery that mediocrity can pay to greatness”; la frase, tuttavia, è di varia attribuzione e l’origine si fa risalire addirittura a Marco Aurelio. Wilde, dal canto suo, avrebbe detto “of course I plagiarize. It is the privilege of the appreciative man” (Oscar Wilde, The Critical Heritage, Karl Beckson, London, 1970, p. 12). Quella dell’attribuzione è una problematica non minuta. Sergio Luzzatto, nella sua raccolta di articoli I popoli felici non hanno storia (Manifesto libri, Roma 2009) attribuisce la paternità del titolo a Raymond Queneau, e al riguardo inizia con una sua citazione: “Se non ci fossero guerre o rivoluzioni, non ci sarebbe storia; non ci sarebbe materia di storia; la storia non avrebbe oggetto. Al massimo, esisterebbero gli annali. Come insegna lo studio dei proverbi, i popoli felici non hanno storia. La storia è la scienza dell’infelicità degli uomini. Raymond Queneau”; sennonché Hegel (in versione inglese) scriveva: “The History of the World is not the theatre of happiness. Periods of happiness are blank pages in it, for they are periods of harmony — periods when the antithesis is in abeyance” (G.W.F. Hegel, The Philosophy of History, Batoche Books, Kitchener, 2001, p. 41). Aveva ragione Hegel o aveva ragione Queneau? L’attribuzione di paternità è complicata, talvolta impossibile e, non a caso, quando di me si tratta e quando era possibile, ho vigliaccamente fatto ricorso al solito responsibility disclaimer. cui siamo adusi noi legulei.
Nel suo predetto bel volume, una vera e propria chicca, Caso ricorda il contenzioso fra Al Bano e Michael Jackson, che però è assai noto, per cui mi piace ricordare il compianto Ivan Graziani, che fece causa a Phil Collins, reo di avergli copiato “Agnese” (da non confondere col tema omonimo di Nicola di Bari), chiamandola “A groovy kind of love”. Senonché il brano è una cover di un noto brano eseguito col medesimo titolo dai Mindbenders del 1965, i cui autori erano Toni Wine e Carole Bayer Sager, cantato prima di tutti, e non tanto bene, da Diane & Annita. Sennonché, il vero autore del brano era Muzio Clementi, compositore della Sonatina op. 36 n. 5 in Sol maggiore, il quale avrebbe avuto delle difficoltà a far valere i propri diritti, perché era morto nel 1832, ed il suo rivale non era nessuno dei sopra evocati, bensì Wolfgang Amadeus Mozart.

Emanuele Calò, giurista