Quale politica dopo il contagio
Oggi non possiamo dire quando tutto questo finirà. Sarà questione di mesi, forse malauguratamente di anni; ma certo ci sarà un dopo-Coronavirus. Il presente è tutto occupato dalla lotta all’emergenza, ma può essere utile farsi qualche domanda sul futuro. Quale scenario politico si prepara per il prossimo periodo? Uomini politici, partiti, movimenti, istituzioni sapranno fare propri gli insegnamenti lasciati da una fase di epidemia e di dolore? Proviamo a chiederci che cosa abbiamo imparato dalla sofferenza di questo terribile inizio d’anno.
Abbiamo introiettato l’importanza dell’autodisciplina, sino ad accettare con consapevolezza pesanti limitazioni alla nostra personale libertà di movimento; e lo abbiamo fatto con la coscienza sociale che si tratta di misure non solo utili alla nostra salvaguardia individuale, ma essenziali per limitare l’incremento del contagio tra la gente, per la tutela dello stesso vivere insieme. Abbiamo quindi recepito un senso di concreta responsabilità comune e reciproca, che in modo diffuso si è evoluta in crescente solidarietà nei confronti di chi ogni giorno (medici, infermieri, personale ospedaliero in genere) si sottopone a turni massacranti per portare aiuto e assistenza ai malati. E siamo tutti ben consapevoli, oggi, di quanto questo sforzo colossale del settore sanitario sia centrale nella lotta contro il Covid-19, che è anche resistenza e lotta per la sopravvivenza. E’ cresciuta la partecipazione collettiva alla sofferenza dei malati, che considerati inizialmente come semplici dati statistici segnalati in base all’età e come potenziali propagatori del morbo hanno progressivamente ritrovato agli occhi della gente la condizione di individui con il loro mondo in frantumi. Talvolta abbiamo persino appreso una sorta di “pietas” comune nei confronti di tanti morti e di tanto dolore. In definitiva, abbiamo imparato nei fatti e a nostre spese che esiste un bene comune sociale ed umano, superiore alle pur lecite mire di ciascuno. E abbiamo altresì interiorizzato il ruolo primario della riflessione, l’indispensabilità dell’esame di coscienza.
Quali sviluppi politici derivare da questa dolorosa esperienza? Innanzitutto, direi, una serietà e una consapevolezza di fondo nell’assumere la responsabilità della cosa pubblica, che non dovrebbe più poter essere ricercata per il puro successo personale. Conseguentemente, la scelta di obiettivi che possano rappresentare davvero valori e beni sociali, al di là delle strategie di parte e delle rendite di posizione dei partiti. Alla ripresa del normale funzionamento della democrazia parlamentare – oggi in effetti interrotto dalla forzata semi-inattività delle Camere – il civile confronto tra le parti dovrebbe dunque essere basato su autentiche questioni sociali e culturali, e non legato al raggiungimento o al mantenimento di posizioni di pura forza. Poiché inoltre abbiamo imparato che la sofferenza degli altri può diventare la nostra, d’ora innanzi dovrebbe divenire un impegno costante la disponibilità ad aiutare chi chiede soccorso fuggendo da situazioni disperate. Insieme a tutto ciò, abbiamo certo anche ben diritto a riservarci un guizzo d’orgoglio per come l’Italia sta sopportando la drammatica crisi e per la sua capacità di essere punto di riferimento europeo nella battaglia contro il Coronavirus.
Temo però che quando l’incubo sarà superato e riprenderemo pieno possesso delle nostre vite ripiomberemo nella abituale lotta per le poltrone e per la visibilità, nei proclami violenti del populismo più becero (sento già risuonare il fatidico “prima gli italiani”), e forse proprio partendo dai giudizi e dai pre-giudizi sommari sulla gestione dell’emergenza.
Da queste colonne mi sembra utile fare riferimento a un possibile modello ideale, che forse, se preso in considerazione, potrebbe servire a evitare i rischi dell’ambizione politica fine a se stessa. Premetto: suona oggi come il più apparentemente paradossale e improbabile dei modelli, e certamente non sarà seguito da chi dovrebbe farlo proprio. Mi riferisco niente meno che al Deuteronomio, e in particolare all’interpretazione che ne dà Michah Goodman nel bel saggio L’ultimo discorso di Mosè (Giuntina, Firenze 2018). Il filosofo israeliano considera Devarim un libro autonomo rispetto agli altri quattro della Torah, nel quale Moshè Rabbenu, il suo unico autore, tenta col discorso in Moab di trasformare un agglomerato di pastori recalcitranti e tendenzialmente idolatri in un popolo giuridicamente organizzato e consapevole dell’esistenza di un Dio unico e trascendente, che si pone quale espressione superiore del Bene in sé e del bene comune, limitando il potere umano dei sacerdoti, di Mosè stesso e in futuro dei re, destinati a essere solo amministratori dello Stato e non certo sovrani assoluti.
L’ultimo libro della Torah, al netto di tutte le difformità di epoche così distanti tra loro, potrebbe forse essere una guida etica e politica per i governanti di domani? Chissà. Intanto apprestiamoci a celebrare uno dei più solitari (e preoccupati) Sedarim della storia ebraica. Chag sameach, per quanto possibile!
David Sorani