Il futuro che manca

claudio vercelliAbbiamo accettato spirito e sostanza del lockdown e continuiamo a praticarlo. Non potrebbe essere diversamente. Essere cittadini, tanto più in questo caso, implica introiettare il senso del limite. Quand’anche esso sia, di fatto, un’amputazione di parte dei diritti elementari, a partire da quello alla socialità. Viviamo un tempo paradossale, nel quale, per continuare ad esistere come esseri umani, dobbiamo fare a meno di ciò che, in fondo, ci restituisce la nostra umanità, ossia il rapportarci con i nostri omologhi. Sia ben chiaro: nessun catastrofismo. Da questa gravissima crisi ne riemergeremo. Ma non saremo più come prima in quanto l’incredibile condizione che stiamo vivendo ci sta mutando: sul piano economico, sociale e civile. In una parolona: sul versante antropologico, quello per cui ci concepiamo donne e uomini secondo determinate concezioni di noi stessi, del nostro essere umani in quanto soggetti sociali. Il tutto, non ci fa peggiori e neanche peggiori. Semplicemente, ci cambia. Mette in discussione ciò che consideravamo assodato, quand’anche ci fosse già stato detto, con encomiabile preveggenza, che nulla è dato per sempre. Poiché, nella storia dell’umanità, tutto cambia. Per virtù così come per necessità. Soprattutto per via della seconda. Detto questo, rimane il fatto che la strategia «shock and awe» (qualcosa che nel nostro caso può essere tradotto nei termini: ti spiazzo e ti annichilisco), che sta alla base della quarantena, può servire per un lasso di tempo definito. Le società a sviluppo avanzato hanno infatti bisogno di usare il tempo – ben più dello spazio, che invece è una componente comprimibile a seconda delle circostanze – per calcolare economicamente, finanziariamente ma anche socialmente quanto una variabile debba pesare. Si è sempre detto: “il tempo è denaro”; a ciò aggiungiamo: il tempo è vita. Senza questo approccio, qualsiasi prevedibilità – un valore strategico nella vita associata – è destinata a ridursi al grado zero. Se non posso ragionevolmente prevedere l’impatto di una cosa, rischio di non potere fare alcun investimento rispetto ai tempi a venire. Il covid-19, a modo suo, ci mette in scacco proprio per questa ragione: più che per la sua virulenza e tracotanza (l’umanità ha vissuto pandemie ben peggiori) ci mette con le spalle contro il muro per la sua capacità – se così la vogliamo intendere – di prendersi gioco della nostra presunzione di calcolare non tanto il presente quanto il tempo a venire. Infatti, se chiedete ai nostri connazionali cosa sia ciò che più li assilla, vi risponderanno che quanto li assedia non è tanto il tedio per quanto già stanno vivendo ma l’oscurità per ciò che potrebbe subentrare. Ognuno motiverà a parere suo un tale stato d’animo, ma rimane il fatto che il comune sentire ingenera una convergenza: il futuro è un tempo tanto imprescindibile quanto imperscrutabile e, quindi, denso di ansie. L’uomo non vive bene con le angosce, cercandone semmai il tempo della prevedibilità, quello basato sulla calcolabilità così come sulla utilità: mi impegno adesso in una cosa, otterrò un risultato. Anche per questo prevedibilissimo riscontro è plausibile il prevedere a breve il ripetersi di manifestazioni di “insubordinazione” sociale (che male c’è – sembrano pensare in molti – nel sedersi su una panchina a prendere il sole? Quale danno deriva dal muoversi durante le festività cristiane? Non siamo forse “innocenti” a prescindere?), a fronte della mancanza di un obiettivo temporale definito e alla crescente stanchezza, nonché apparente insensatezza, di vincoli e punizioni, che senz’altro hanno effetto per un certo lasso di tempo, perdendo poi però di aderenza alle situazioni di fatto quando dovessero ripetersi senza un qualche obiettivo tangibile. Non esula da tale riscontro il fatto che con coloro con i quali capita di scambiare qualche parola, oramai perlopiù telefonicamente, l’umore condiviso è decisamente preoccupato: l’angoscia crescente è quella non di una recessione (l’ennesima, pressoché certa) bensì di una depressione che colpirà economie personali e familiari, già ridimensionate nell’ultimo decennio; una depressione economica, peraltro, si alimenta molto anche delle depressioni psicologiche e del rischio di una demotivazione al fare che serpeggiano come sgradevoli compagne di viaggio in questi tempi. Abbiamo fame di futuro, più che di conoscenza del passato. Un cambio di passo dovrà tenere conto di un tale orizzonte temporale, senza il quale non c’è “comunità” che tenga. La vera posta capitale non sarà più la sola memoria dei trascorsi ma la speranza in una società a venire. Verso ciò dovremo quindi indirizzarci, trattandosi della posta in gioco più importante.

Claudio Vercelli