Schiavitù e libertà
“Avadim ainu le Phar’o be Mizraim. Va-iotzienu Hashem Elohenu misham beiad hazaqah uvizroa’ netuiah”. Schiavi fummo del Faraone in Egitto, ma il Signore Dio nostro ci ha tratto fuori di là con mano possente e con braccio disteso. Abbiamo intonato queste parole – che in estrema sintesi racchiudono l’intera Haggadah – poche sere fa all’inizio del Seder, guardando dalla nostra condizione di libertà al passato di schiavitù. Ma la schiavitù è davvero del tutto passata? E oggi siamo davvero liberi? In questi giorni di Pesach, confinati nelle nostre case dalla pandemia, abbiamo occasione di interrogarci e di riflettere sul tema.
La schiavitù dei nostri padri era certo innanzitutto costrizione fisica e sociale, era servire con fatica e in condizioni durissime un tiranno straniero costruendo per lui i grandi sepolcri piramidali che hanno costituito la sua fama. Ma era anche costrizione mentale e interiore, collettiva e individuale; era la consuetudine con i costumi “egiziani” cioè altri, pagani, stranieri, era il lasciarsi condizionare da essi sino a smarrire se stessi. Una tendenza che gli ebrei mantennero nel deserto, dopo la liberazione dalla schiavitù egiziana e da quel che essa rappresentava, e che manifestarono nelle ricorrenti proteste contro Moshè, nella frequente mancanza di fiducia in Dio che si esprime con l’esplicito rimpianto dell’Egitto e della schiavitù, nelle ribellioni contro la loro guida e la volontà del Signore (che rappresentano forse l’espressione politica di un ritorno alla condizione originaria di schiavitù).
La libertà che i nostri progenitori acquistarono fu certo anch’essa emancipazione fisica e sociale, liberazione da una condizione di servitù materiale nei confronti del tiranno. Ma fu anche emancipazione interiore e spirituale, per ognuno e per tutti; fu una nuova identificazione etnica ed etica capace di esplicarsi nella nuova/ritrovata identità religiosa ebraica che emergeva dalla liberazione. Libertà era trovare/ritrovare il Dio unico e la sua Legge morale che donava aggregazione al popolo, dopo la schiavitù dell’idolatria egiziana.
E ai giorni nostri? Oggi la schiavitù è più diffusa di quanto appaia a prima vista dalla nostra privilegiata posizione occidentale. Essa è innanzitutto la condizione di povertà totale e di radicale precarietà dei tanti, troppi che in molte zone martoriate del mondo ma anche in mezzo alla cosiddetta civiltà sono tormentati da guerre incessanti ed endemiche, o comunque da incertezza continua circa la propria esistenza. Ma oltre questa pesante costrizione sociale, schiavitù è anche, per tutti, il condizionamento interiore derivante da modelli comportamentali e da stereotipi ai quali ci adeguiamo spesso per abitudine e imitazione, senza una autonoma scelta razionale. Per noi ebrei, in particolare, schiavitù è oggi il non ritrovare/non vivere consapevolmente la nostra condizione ebraica, cioè l’equipararsi totalmente senza alcuna diversità alla condizione straniera (“egiziana” o “idolatra”, nel linguaggio della Haggadah”), smarrendo l’identità culturale, etnica, religiosa che ci contraddistingue; in definitiva perdendo noi stessi.
Libertà è certo, oggi come sempre, condizione individuale e collettiva di autonomia, possibilità di decidere, di partecipare costruttivamente e democraticamente: situazioni in realtà non scontate, anzi troppo spesso negate nella nostra apparentemente progredita civiltà. Ma più che mai libertà è anche consapevolezza di sé, del mondo, degli altri. Senza conoscenza non può esistere autentica libertà, perché solo l’acquisizione razionale permette di esprimere una volontà autonoma. Centrale è in definitiva la visione di libertà, la strada filosofica tracciata da Spinoza nell’Etica (in ultima analisi attraverso l’Amor Dei intellectualis) e nel Tractatus politicus: solo la conoscenza dell’Essere e delle cose rende l’uomo libero da condizionamenti e consapevolmente padrone delle sue scelte.
Rispetto alla nostra condizione ebraica, libertà è anche (soprattutto?) – in linea con questo principio spinoziano di fondo – essere consapevoli della nostra storia, della nostra cultura, della nostra appartenenza; viverle come scelte di identità mantenendo peraltro costanti contatti di collaborazione e amicizia con l’altro, cioè con i mondi e le culture differenti.
La fase dolorosa e pericolosa che stiamo attraversando ci sta paradossalmente aiutando in questa doppia strada di conoscenza e di solidarietà, interna ed esterna. Nell’isolamento domestico si moltiplicano gli incontri virtuali, tra noi ebrei crescono il senso di appartenenza comunitaria e la volontà di studio, ma anche la partecipazione alle difficoltà comuni. Dal dramma collettivo sta forse nascendo una libertà più autentica e vissuta?
David Sorani