Autoimmuni

claudio vercelliC’è una comune esigenza, ovvero quella di fare uno sforzo da subito, senza continuare a derogare, fingendo altrimenti di potere ripetere la recita all’infinito. Si tratta di un esercizio di salute del linguaggio di senso comune che, oggi, è anche lingua della comunicazione mediatica. Risparmiamoci le retoriche ripetitive, ossessive, quasi degli osceni conati, sugli «angeli», gli «eroi», addirittura i «martiri». Insieme alla dolce menzogna per cui il nostro sarebbe «il paese più bello del mondo» (sentito poco fa in una pubblicità mandata in onda ossessivamente). E all’oramai inflazionato preambolo per cui «non è ora delle polemiche» (al quale segue subito il “ma” e poi, in un funambolismo comunicativo, il susseguirsi di affermazioni aggressive). Oltre a tutto un lessico che, nel suo ripetersi, rivela come per tanti il rimandare all’emergenza faccia il paio con la totale inconsistenza. La propria. Inconsistenza di idee, di azioni, di previsioni, mulinellando la spada nel vuoto o inseguendo e caricando i mulini a vento. Poiché il tutto non è solo parte di un processo di falsificazioni della realtà, di mistificazioni di comodo, ma anche il pidocchioso involucro dentro il quale incartare e nascondere la miseria della condizione dei tanti. A partire, per fare un esempio al presente tra i diversi possibili, dal personale – sanitario e non – impegnato nel fare fronte ad una reale emergenza, come tale spossante e, per il momento, senza fine. Le condizioni delle RSA (degli ospiti, degli operatori, delle loro stesse gestioni) già da sé urlano “vendetta”, facendo giustizia di qualsiasi bisogno di continuare ad auto-ingannarsi. Se la pandemia può lasciarci un qualche “insegnamento” (ammesso e non concesso che le grandi malattie, individuali e collettive, possano educare qualcuno a qualcosa) è quello della necessità di essere più lievi, ossia meno bisognosi di quelle sovrastrutture ideologiche dietro le quali il più delle volte si nasconde la mancanza di spessore proprio e altrui. In altre parole: cerchiamo di guardare la realtà in faccia. D’altro canto, per trovare la radice del gigantesco disagio che stiamo letteralmente attraversando come se fosse un viaggio nel deserto, al netto delle incontrovertibili evidenze dei fatti, dobbiamo fare ricorso anche a categorie più sulfuree come “smarrimento” o “spiazzamento”. La pandemia ci ha investiti nella nostra integralità, intaccando non solo la comune salute “fisica”, quindi la corporeità intesa nel senso biologico, ma anche il complesso sistema di relazioni sociali dentro le quali siamo abitualmente collocati. Se quest’ultimo si smaglia prima, per poi magari rompersi, la stessa sopravvivenza degli individui può essere messa in discussione. Il «distanziamento sociale», nella sua oggettiva necessità, è un anche un inequivocabile segno in tale senso: allontana le persone nel nome di esigenze inderogabili, rompe quei legami di reciprocità che non siano vissuti solo attraverso filtri come i mezzi di comunicazione, spezza la spontaneità dell’incontro occasionale. C’è un gigantesco costo in termini di vite umane ma anche di qualità dell’esistenza medesima: se le prime vengono a mancare, la seconda si trasforma alla sua radice. Senza mettere in conto l’incertezza che deriva da un orizzonte economico a dire poco incerto. Tutti elementi che creano non solo apprensione ma anche, per l’appunto, smarrimento. L’effetto immediato è che, dinanzi alla caduta della prevedibilità delle cose, ossia della loro calcolabilità, le persone cerchino un qualche rifugio dall’angoscia che le attanaglia nelle semplificazioni tranquillizzanti. Anche a rischio di auto-ingannarsi, ossia di prendersi gioco di se stesse. Le menzogne, soprattutto se mediatiche, diffuse attraverso quel gigantesco sistema di amplificazione che è il circuito dell’informazione (non c’è bisogno che diventino la “versione ufficiale”, come tale comunemente accetta: basta che possano ritagliarsi un qualche spazio residuo di credibilità) colmano il vuoto che non pochi sentono intorno a sé e, magari, anche dentro se stessi. Il ritorno delle retoriche del complotto, si inscrivono in questo quadro di estrema incertezza. Poiché rispondo a tre dinamiche emotive elementari e, come tali, molto diffuse. La prima di esse è quella di semplificare, con una serie di asserzioni tanto definitive quanto non comprovabili, l’indecifrabilità dell’esistenza. Chi aderisce al paradigma del complotto non lo fa mai dopo un’attenta ricerca di merito ma sulla base dell’accettazione ideologica di un assunto. Anche per questa ragione, ne è gratificato: reputa di avere trovato le “giuste” soluzioni senza doversi inerpicare per gli incerti e faticosi sentieri della ricerca, del confronto, dell’errore e della rettifica. Così facendo, cerca non tanto comprensione razionale quanto condivisione affettiva ed emotiva, sulla base del protagonismo occasionale che l’affermare panzane riesce a garantirgli (i “paladini della verità”; quelli che “non si fanno ingannare dal potere”; il «J’accuse!» e l’indignazione come modalità di relazionarsi alla realtà e al resto delle persone). Il complottismo aumenta il senso di sicurezza, l’autostima, l’illusione di sapere utilizzare in modo migliore il proprio residuo raziocinio. Come ogni logica auto-referenziata, non è per nulla scalfita dal principio di realtà, poiché si costituisce essa stessa in “realtà” alternativa, tale perché sussiste a prescindere dai fatti. La seconda dinamica è quella del pensarsi in eterno pericolo: poiché si sta dicendo la “vera verità”, si sarebbe per tale ragione messi a rischio e minaccia dalla volontà di occultare i fatti perseguita invece dai «poteri forti». Si tratta di una mentalità persecutoria, a tratti paranoide, che rafforza quell’impostazione del rapporto con i fatti della vita basata sul sospetto sistematico. Il complottista può essere una persona ben adattata al contesto sociale in cui vive e nutrire anche buone relazioni con i suoi interlocutori, ma le modalità di ragionamento che adotta sono lucidamente deliranti. E sono tali quei criteri per cui un’idea, una volta radicata, non viene mai modificata, anche dinanzi alla smentita più schiacciante o ai fatti stessi in quanto tali. Karl Popper ha parlato, con grande efficacia, di un criterio di pensiero «autoimmunizzante», quello per cui: “credo in qualcosa; non ne trovo le prove e proprio per questo ritengo che ciò sia il riscontro del fatto che i miei convincimenti siano veri, in quanto quel che li dovrebbe comprovare è nascosto dai potenti”. Si tratta di una pura circolarità, ma estremamente convincente per chi vuole avvitarsi su di sé, in chiave totalmente auto-protettiva. La terza dinamica, quella che sta alla base di tutto, è la rimozione di ciò che appare come sconosciuto, ineffabile, misterioso e irriducibile. Il complotto dà una parvenza di tangibilità e, con essa, di governabilità, dell’altrimenti insondabile. È un modo per nutrirsi dell’impressione di controllare l’oggetto e le ragioni della propria paura dando ad essa un nome, un’identità, una sorta di volto ancorché fittizio se non falso. Si può combattere ciò che si sa riconoscere, non quanto continua a manifestare i suoi effetti senza mai rivelarsi. Il capro espiatorio risponde a tali esigenze. Quanto possa essere rovinoso, poiché gravemente disfunzionale rispetto alla vita sociale, un tale criterio di relazionarsi al mondo, dovrebbe risultare evidente da subito. In quanto da un lato alimenta sentimenti di onnipotenza e, dall’altro, rafforza la propensione da ingannare e ad ingannarsi. Se l’ondata pandemica mette a nudo le nostre fragilità, allora è necessario tornare a ragionare sulle radici dei nostri legami sociali, facendo a meno della seduzione delle illusioni.

Claudio Vercelli

(19 aprile 2020)