Una Memoria diversa
Yom ha Shoah durante il vortice del Coronavirus: un convergere di situazioni che ci induce a riflessioni particolari, certo inedite e forse significative. Niente manifestazioni pubbliche, quest’anno in Israele. Anche “Zikaron ba-salon” (Memories@Home), la bella iniziativa di Adi Altschuler che porta testimoni della Shoah a raccontare le loro vicende nelle case dei cittadini israeliani, è sospesa come ogni riunione apportatrice di rischio di contagio. Yad Vashem si allinea alla tendenza oggi irrinunciabile all’incontro on line e lancia l’idea di leggere in ogni casa i nomi delle vittime, pubblicati sul suo sito paese per paese, e di filmarsi postando i video sui social come #RememberingFromHome o #ShoahNames: i filmati raccolti possono così formare insieme una grande cerimonia pubblica in remoto.
Certo, la mancanza della trasmissione e della condivisione diretta della memoria, dello scambio di emozioni a tu per tu costituisce una perdita di spessore, a vantaggio peraltro di confronti e di sensazioni più sottili. Rievocare la persecuzione nel confino obbligato delle nostre dimore significa tentare di ripercorrere itinerari di costrizione e di pericolo estremo all’interno di una nuova vicenda di costrizione e di rischio generalizzato. Le nostre “tiepide case”, divenute oggi rifugio precario di fronte a una pandemia dagli esiti imprevedibili, possono forse trasformarsi in un osservatorio meno privilegiato e dunque più partecipe della condizione estrema di chi ha subito la deportazione? Forse affermare questo è eccessivo, per quanto l’attuale situazione di sofferenza e di pericolo ci spinga ad accentuare il coinvolgimento emotivo rispetto alle violenze e alle distruzioni totali di ieri. Forse anzi, al di là del richiamo emozionale, la coincidenza Coronavirus-Yom ha Shoah è utile proprio a rammentarci il contrario, cioè che nonostante il carattere di tragedia collettiva comune ai due eventi il dolore condiviso per la diffusione della malattia e i lutti da essa prodotti non è assolutamente paragonabile nei contenuti al vuoto abissale lasciato dal genocidio. Questo anche perché il peso dell’assenza legato allo sterminio non è semplicemente sofferenza per la mancanza di chi non c’è più, ma anche memoria di violenza distruttiva e di assassini di massa; anche ricordo positivo di fughe affannose, di salvezze di pochi rispetto alla morte di molti; anche vertigine interiore di fronte alla intrapresa distruzione di un popolo. Alla radice dei due diversi sentimenti, il fatto che i due eventi appartengono a due ordini di realtà differenti e non comunicanti: da una parte un fatto naturale, imprevedibile eppure conoscibile, distruttivo ma anche curabile, tra non molto forse anche evitabile a priori grazie a un auspicabile vaccino; dall’altra un’operazione di annientamento programmato e scientemente realizzato dal regime nazista con le armi dell’ideologia razzista, dell’amministrazione e della burocrazia statale, dell’efficienza industriale e della tecnologia.
Al di là della pur indispensabile dimensione soggettiva della memoria, è la prospettiva storica – più utile a comprendere obiettivamente la realtà – quella che ci permette di constatare come il male sia più spesso e più radicalmente opera della costruzione politica dell’uomo che non frutto di un’autonoma evoluzione naturale delle cose.
David Sorani
(21 aprile 2020)