Periscopio – Taras Bul’ba
Ho appena finito di rileggere Taras Bul’ba, di Gogol’, che ricordo che mi appassionò molto da ragazzo (mi pare che fosse ai tempi del liceo, o addirittura delle scuole medie). Ed è facilmente comprensibile come il poderoso romanzo, nonostante (anzi, proprio in ragione di essa) la sua grande violenza e crudezza, possa facilmente catturare l’attenzione dei giovani lettori, affascinati dalle epiche gesta del feroce condottiero, nonché dalla vivida rappresentazione della selvaggia società del suo tempo e degli sconfinati paesaggi su cui si stagliano le umane passioni.
Personaggio paradossale, iperbolico (avrebbe pesato trecento chili), sanguinario e spietato con i nemici, ma animato da una fedeltà parossistica ai valori del sangue, della fede, del cameratismo, il capo cosacco non conosce nessun tentennamento, nessuna pausa, nessuna mezza misura. La battaglia è per lui non una scelta politica o ideologica, ma una vera e propria necessità fisiologica, l’unico modo degno di vivere la vita. E pazienza se, in ossequio al suo sacro furore, l’eroe della steppa fa strage di bambini innocenti, uccide con le sue stesse mani il secondo dei suoi figli (colpevole di tradimento), assiste di persona ai terribili supplizi con cui viene martirizzato il primogenito – orgoglioso per la forza d’animo da questo dimostrata sul patibolo -, conclude la sua vita bruciato vivo, inchiodato a un albero. Bul’ba muore felice, anzi, ebbro di gioia, continuando, tra le fiamme, a incitare i suoi compagni alla lotta: è un uomo fortunato, sono queste la giusta vita e la giusta morte di un vero cosacco.
Avendo riletto il libro circa mezzo secolo dopo, alle emozioni provate tanto tempo fa si sono, comprensibilmente, aggiunte – o sostituite – delle sensazioni e delle riflessioni molto diverse. Innanzitutto, ovviamente, una forte ripugnanza verso i presunti “valori” esaltati nel romanzo, e poi – ciò che particolarmente riguarda le tematiche di questa Newsletter – delle considerazioni per me importanti sulla natura dell’antisemitismo, che nel romanzo di Gogol, sia pur non come tema di primo piano, svolge comunque un ruolo significativo.
Bul’ba e i suoi seguaci non sembrano propriamente dei sadici, non mostrano di provare godimento nel fare soffrire le altre persone. Quello che li anima è soprattutto un irrefrenabile istinto naturale verso il cimento, lo scontro, la violenza. È solo per quello che il maschio è creato: ogni sosta, ogni indugio è considerato una forma di debolezza, di devianza rispetto della sua virilità. La pace, la casa, la quiete sono cose esclusivamente per donne, e la stessa attrazione per il sesso femminile è vista come una sciocca frivolezza: un vero cosacco si unisce a una donna solo per generare dei figli, che, se maschi, dovranno andare, il più presto possibile, a combattere.
Bul’ba mostra di nutrire un accentuato disprezzo per gli ebrei (che, a dire il vero, sembra pienamente condiviso dallo stesso scrittore), che vediamo numerosi, nel romanzo, sempre nelle vesti di esseri miseri, vili, deboli, falsi, striscianti, in perenne ricerca di espedienti vari per salvarsi dalle sempre incombenti tragedie. Ma va anche detto che egli non sembra curarsi molto di loro, e uccidere gli ebrei non lo diverte particolarmente: troppo facile, che gusto c’è? Meglio muovere le sue esaltate truppe contro i turchi, i tartari, i polacchi, che daranno il gusto della pugna, del rischio della battaglia. Il problema è che tutti questi nemici (considerati tali solo per il fatto di essere “altri”) non sono sempre a portata di mano, e, prima di raggiungerli, occorre fare anche lunghi viaggi. Ed è possibile stare tanto tempo senza massacrare qualcuno? Ovviamente no. Come occorre quotidianamente mangiare e bere, così occorre uccidere, giusto non perdere l’abitudine. E qualche ebreo, nei paraggi, si trova sempre.
Bul’ba dice sempre di agire in nome di Gesù Cristo, e come tale è rappresentato nel romanzo: un eroe, un martire della fede. La sua morte sul rogo è come una replica, una degna prosecuzione del calvario di Cristo. Non vi illudete, urla, morente, tra le fiamme, capirete presto di cosa è ancora capace la fede russa ortodossa!
Gogol’ muore, com’è noto, quarantatreenne, nel 1852, e la sua fama continuerà a crescere nel tempo. È stato considerato un cantore dell’anima russa, della forza dell’onore, della purezza della religione, dei valori della libertà dello spirito, ben simboleggiati dagli spazi sconfinati della steppa.
Per me, è una delle tante dimostrazioni di come l’arte abbia saputo inquinare, avvelenare la vita degli uomini. Alcuni decenni dopo la sua morte, dalla terra di Ucraina il messaggio di riscatto di Theodor Herzl avrebbe ridato una speranza a quegli ebrei tanto disprezzati da Gogol’, verso i quali non manifesta mai un sia pur minimo cenno di considerazione umana, di rispetto o pietà. Il sionismo sarebbe divampato come un incendio: queste, sì, vere fiamme di libertà e giustizia.
Francesco Lucrezi