La cultura ci salverà
Il dramma Coronavirus è ancora nel pieno della sua evoluzione mondiale. Anche se i livelli di contagio e di mortalità stanno scendendo ovunque, le vittime della pandemia tuttora si aggiungono le une alle altre. Eppure giustamente l’organizzazione sociale e l’opinione pubblica si proiettano sul futuro, sulle risposte da dare alle ardue domande poste dal dopo-Covid 19. Anche in Italia – forse il paese più tragicamente colpito e quello in cui le conseguenze della catastrofe si preannunciano più pesanti – il dilemma sul domani ha preso forma, il dibattito legato al percorso di uscita dall’emergenza e alle linee dello sviluppo successivo è in pieno svolgimento, con l’inevitabile strascico di polemiche legate a visioni complessive e a modelli operativi legittimamente differenti, ma anche a logiche di parte e a tattiche di potere che per il bene comune sarebbe bene accantonare.
Centrali per le prospettive di sopravvivenza e per la ripresa saranno certo le strategie economiche di fondo nonché le scelte legate al mondo del lavoro, settore messo in ginocchio dalle misure di isolamento totale di questi mesi. Occorreranno iniziativa, idee, massicci finanziamenti e coesa solidarietà sociale per ricostruire una linea di sviluppo e per offrire possibilità di futuro ai tanti che hanno perso o perderanno la loro attività. E nella misura in cui esiste un’Unione Europea, nel nostro continente lo sforzo dovrà essere comune, come comuni saranno i suoi benefici. La partita è decisiva: è in gioco la stessa continuità strutturale del nostro mondo, in senso economico, sociale, politico, culturale.
Ebbene, un ruolo decisivo nell’itinerario di recupero che a vari livelli i vertici europei sono impegnati a tracciare è a mio parere quello rivestito dalla cultura. Questo per alcune ragioni sostanziali. È innanzitutto nella cultura che si radica la nostra identità occidentale, quella Weltanschauung umana e democratica – sin dal Manifesto di Ventotene nemica dei domini totalitari e alla base del progetto di unità europea – di cui ci sentiamo parte e che vogliamo rimanga elemento di fondo del nostro essere cittadini nazionali e trans-nazionali nell’epoca successiva alla pandemia. È solo sulla base del nostro patrimonio culturale che possiamo tentare di elaborare progetti per il difficile domani post-epidemia, siano essi di riforma sociale, di innovazione pedagogica, di divulgazione scientifica o di formazione artistica/umanistica. Solamente una prospettiva culturale può, nello specifico, riflettere in profondità sul significato della crisi radicale in cui siamo immersi per trarne le adeguate conclusioni e tentare di costruire un modello più equilibrato di sviluppo. Se guardiamo particolarmente all’Italia, la cultura si evidenzia più che mai come il fulcro obbligato di ogni attuale iniziativa di programmazione, dato che cultura storia e arte rappresentano il cuore di quanto il nostro Paese può dare a se stesso e al mondo. Se poi ci rivolgiamo al nostro ambito ebraico, anche qui la cultura, lo studio rappresentano la nostra cifra peculiare e dunque l’irrinunciabile punto di riferimento per ogni strategia di rilancio.
Ma quando si dice cultura come sostanza non si dice cultura come puro fiore all’occhiello o come semplice orpello; si intende cultura come valore e come struttura di un programma, cioè come progetto articolato e adeguatamente finanziato. Puntare sulla cultura dovrà quindi significare elaborare programmi vasti e soprattutto mirati a un’ampia sistematica diffusione, nonché irrorati da adeguati stanziamenti. Solo così essa potrà farsi veicolo di formazione e prospettiva per il futuro.
Anche i vertici dell’ebraismo italiano dovrebbero a mio giudizio puntare decisamente sulla cultura nel disegnare il modello della ripartenza post-coronavirus. Punto di riferimento prezioso può essere proprio quanto sta emergendo in questi mesi difficili. La precarietà dell’isolamento ha spinto a creare, anche sull’onda dell’urgenza comunicativa, nuovi strumenti e nuove agili strutture organizzative fondate sui social e sulla emergente aggregazione mediatica. Sfruttando con apprezzabile tempismo la situazione e lo spontaneismo della base, l’UCEI è riuscita a costruire una ricca piattaforma informatica piena di spunti, di occasioni di approfondimento, di proficui inviti allo studio e alla partecipazione comune; molti ebrei italiani hanno prontamente raccolto l’invito e stanno partecipando alle tante iniziative online con crescente entusiasmo. Le singole Comunità ebraiche italiane dovrebbero raccogliere questo esempio (alcune in verità già lo fanno) producendo fin d’ora attività in comunicazione diretta con gli iscritti e materiali da inviare a singoli e famiglie, onde promuovere partecipazione, dibattito, senso di appartenenza. Così facendo, esse non solo risponderebbero a quanto richiede loro lo spirito dello Statuto dell’ebraismo italiano, ma nella sostanza sarebbero più vicine alla propria base in questi momenti di particolare difficoltà e contribuirebbero concretamente alla sua formazione ebraica.
David Sorani