I 72 anni di Israele
e la nostra sfida
Israele è il nome che un nostro padre ha acquistato al duro prezzo di un combattimento e che ha poi trasmesso alla sua discendenza. Se teniamo conto del famoso episodio biblico in cui assistiamo alla lotta di Giacobbe contro un angelo e che si conclude con l’acquisizione di un nuovo nome, Israel, dobbiamo intendere l’identità di Israele come un nome di lotta, portato da coloro che sono impegnati in un combattimento. Ancora oggi a 72 anni dalla nascita dello Stato di Israele i nostri modi di festeggiare Yom Ha Atzmaùt sono il prodotto di quella filosofia per la quale il sionismo ha preparato una salvezza terrena per un popolo umiliato e straziato dalle tragedie dell’esilio.
Ancora oggi la nostra lotta è quella di far capire che Israele non è una nazione inventata sulla carta. Piuttosto è il popolo d’Israele che ha saputo reinventarsi. L’esistenza di Israele dice al mondo che il popolo ebraico continua ad esserci, non intende scomparire né cedere alle lusinghe di una assimilazione che, in passato, ha rappresentato spesso la ragione della sua rovina.
Il sionismo nasce proprio dall’esigenza di dare una risposta all’assimilazionismo, altra faccia dell’antisemitismo.
In molti sostengono che se non ci fosse stata la Shoah, Israele non sarebbe mai nata. Semmai è il contrario. Israele nasce malgrado la Shoah e non è un risarcimento perché la Shoah non è una tragedia risarcibile.
Storie e culture diverse, singole persone e identità distinte si sono raccolte nel corso del tempo in questo Stato, accomunate tutte dal rimando a un ebraismo plurale ma per il resto diversificate quanto a origini e traiettorie.
Eppure quella forza centripeta, quel terreno comune, è il cuore pulsante del giovane Stato.
Chi lo odia, o forse maschera con l’avversione la sua invidia, prende di mira quel che in quello Stato funziona, non i suoi fallimenti. Una realtà piccola che racchiude in sé, come in un caleidoscopio, l’intera complessità e tutte le differenze del mondo. Una democrazia moderna che si misura con tutte le difficoltà, le tensioni e i problemi di una società pluralista in continua trasformazione.
Il 5 di Yiàr di 72 anni fa, appena Ben Guriòn ebbe finito di leggere la dichiarazione d’Indipendenza, Rabbi Ha Cohen Maimon, uno dei firmatari della dichiarazione stessa, si alzò in piedi e pronunciò la benedizione di “Sheecheianu” che si dice per le cose e per gli avvenimenti nuovi, benedizione nella quale si ringrazia l’Eterno per averci fatto vivere, e partecipare a una situazione che è per noi fonte di una gioia inaspettata.
Si tratta in realtà, dal punto di vista della Tradizione ebraica, del riconoscimento della miracolosa sopravvivenza ebraica e la realizzazione di quello che è stato il sogno di decine di generazioni. Yom Ha Atzmaùt ci ripropone quindi l’incessante dialettica che accompagna il destino del popolo ebraico dove la storia si incontra con lo spirito, l’immanente con il trascendente e il tempo delle lacrime con il tempo delle risa. Azoreim bedima berinna iktzoru.
Moadim Le Simchà li Gheulà shelemà
Rav Roberto Della Rocca, direttore area Educazione e Cultura UCEI