Tra giornalismo e politica

Per comprendere l’importanza e il significato della complessa operazione che ha portato al cambiamento della proprietà del gruppo editoriale Gedi e alla nomina di Maurizio Molinari a direttore editoriale dell’intero gruppo, adesso controllato dalla famiglia Agnelli, e al tempo stesso alla sua nomina a direttore di Repubblica, può essere utile iniziare dalla lettura dell’articolo pubblicato il 25 aprile della direttrice del Manifesto Norma Rangeri (“Gli Agnelli editori molto impuri”). È un articolo particolarmente rancoroso, il cui cuore è costituito dal ritratto che pretende di fare di Maurizio Molinari: “Marcatamente capitalista, marcatamente atlantista, marcatamente filo-israeliano”. Basta rovesciare in positivo e con un linguaggio non ideologico questa definizione per comprendere le ragioni della rabbia del Manifesto che continua a inalberare nella sua testata la definizione di “Quotidiano comunista”. “Marcatamente capitalista”, cioè favorevole all’economia di mercato; “marcatamente atlantista”, cioè favorevole ai sistemi democratici e ostile alle dittature di ogni tipo; “marcatamente filo-israeliano”, e questo è il marchio rovente che si vorrebbe imprimere su Molinari: non potendo dire esplicitamente “di origine ebraica”, perché questo non si usa più, si preferisce usare la locuzione antisionista, ignorando tra l’altro che Molinari, quando era corrispondete dal Medio Oriente, oltre all’ufficio di Gerusalemme ne aveva aperto uno a Ramallah per poter conoscere e far conoscere direttamente ciò che accadeva nella realtà palestinese. L’articolo si chiude non solo invitando alla rivolta la redazione ma anche sollecitando una sorta di sciopero dei lettori chiamando infine in causa Eugenio Scalfari che, come vedremo, non si sottrarrà alla chiamata.
Poiché l’operazione editoriale ha comportato oltre alla nomina di Molinari, anche quella di Massimo Giannini, proveniente da Repubblica, a direttore de La Stampa, vediamo adesso gli articoli dei due nuovi direttori, pubblicati lo stesso giorno (25 aprile) in cui hanno assunto l’incarico. Quello di Maurizio Molinari (“La sfida di un giornale per il riscatto di un Paese ferito”) è un articolo piano, senza enfasi, come è nello stile della persona: si apre con un omaggio ai predecessori, in particolare al fondatore Eugenio Scalfari, con una rassicurazione alla redazione, con un richiamo al rispetto per i lettori. Prosegue sottolineando la coincidenza con la ricorrenza della Festa della Liberazione. Non si dilunga in considerazioni ideologiche, ma mette innanzi due sole citazioni tratte da Ralph Dahrendorff e da Robert Kennedy. Quella del sociologo anglotedesco – che tanto significò come antidoto agli ideologismi della fine degli anni ’60 – è la più significativa perché insiste sulle conseguenze della globalizzazione selvaggia che porta con sé la crescita di disuguaglianze devastanti sulle quali crescono populismi di ogni matrice. Quella di Bob Kennedy è più nota perché sottolinea “il limite del PIL” che si basa solo sui numeri e non sulla “felicità degli individui”. Siamo, come si vede, nella più tradizionale linea liberaldemocratica, quella che secondo Rangeri, nota esperta di liberalismo, verrebbe messa a rischio dalla nuova direzione di Repubblica. L’articolo si chiude con un riferimento alle dinamiche dell’economia digitale che adombra quella che sarà una delle principali innovazioni che Molinari porterà avanti come direttore editoriale dell’intero gruppo Gedi, il rilievo che verrà dato agli aspetti dell’informazione digitale.
Molto più ideologico è l’articolo di Massimo Giannini (“Un giornale moderno e perbene”) che propone una sorta di assimilazione tra Repubblica e La Stampa basata sul fatto che entrambi i quotidiani avrebbero in comune la derivazione dalla tradizione dell’azionismo. Ma bisogna ricordare che l’eredità del Partito d’Azione si divise ben presto in due filoni che portarono alla scissione e poi alla scomparsa di quel partito che tanta importanza aveva avuto – continuando l’opera di Giustizia e Libertà di Carlo Rosselli – nell’antifascismo e nella Resistenza. Uno di quei filoni fu rappresentato da Ugo La Malfa, che poi confluì nel Partito repubblicano modificandone in profondità le caratteristiche, fino a esprimere, in seguito, figure come Bruno Visentini e Giovanni Spadolini di cui, non a caso, Molinari è stato allievo.
L’altro filone, rancoroso e astratto, si basava sulla convinzione dei suoi esponenti di essere i migliori non ascoltati, l’élite non compresa da un Paese rozzo e privo di coscienza democratica. Una cultura che nel lungo periodo si è travasata nel berlinguerismo, come sottolineatura della “diversità” che avrebbe caratterizzato i comunisti rispetto agli altri partiti. Lo scivolamento verso il Pci di questo filone dell’azionismo avvenne negli anni ’70 e ’80 attraverso i gruppi parlamentari della cosiddetta “Sinistra Indipendente”, eletti nelle liste del Pci, un’operazione che vellicò la vanagloria di molti ex azionisti.
Ma l’eredità di questo secondo filone del P.d.A. si può ritrovare – più che nell’impegno politico diretto – soprattutto nel campo della storiografia: la storiografia di origine azionista – esasperando motivi di derivazione gobettiana e orianesca – ha contribuito a costruire un’immagine della storia d’Italia basata sul sostanziale disprezzo del Paese, mettendone in evidenza solo gli aspetti più negativi, ignorando le energie positive che gli italiani sono stati capaci di manifestare, in particolare durante il periodo della Ricostruzione del boom economico. La storiografia azionista – specialmente la scuola fondata da Guido Quazza a Torino che ha prodotto frutti spesso avvelenati (come nel caso di Angelo d’Orsi: non si può trascurare che l’Università di Torino è diventata uno dei maggiori centri dell’antisionismo) – è stata a lungo l’unica a dividersi il campo con quella marxista, con la quale spesso trovava punti di contatto. Indebolitasi la storiografia liberale di ispirazione crociana, il cui ultimo grande esponente fu Rosario Romeo, queste due scuole hanno dominato pressoché incontrastate fino all’avvento di Renzo De Felice che resisté a tutti i tentativi di distruggerlo, messi in atto a tutti i livelli. De Felice ha resistito e ha prodotto una valida scuola, il cui più autorevole esponente è Emilio Gentile che a sua volta ha prodotto una scuola di alto livello, sempre più lontana dagli ideologismi della storiografia marxista e azionista.
Non si creda che questo aspetto sia lontano dalla lotta politica: questa storiografia contemporaneistica ha avuto un notevole peso politico nell’orientare per decenni le giovani generazioni verso atteggiamenti ideologici estremisti. Lo dimostra anche la funzione che ebbe uno storico come Giorgio Spini che pure proveniva dalla stessa tradizione azionista, ma che era estraneo alla sua ideologizzazione e che fu uno dei pochi storici che resisté alla deriva estremistica, svolgendo un’importante funzione formativa anche per mezzo del suo fortunato manuale per le scuole superiori.
Debole sul piano strettamente politico (gli esponenti del P.d’A. che confluirono nel Psi, da Riccardo Lombardi a Francesco De Martino, ebbero ruoli rilevanti, ma non riuscirono mai a influenzare la linea dettata, nel bene e nel male, da Pietro Nenni, sia nella fase filocomunista che in quella autonomista), il filone rancoroso della tradizione azionista – oltre a esprimersi in una importante scuola storiografica – produsse come frutto politico più rilevante – attraverso la mediazione dell’Espresso – appunto La Repubblica, l’esempio più rilevante di “giornale-partito”. Esisteva nella storia italiana (e non solo), soprattutto della sinistra, la tradizione del giornale-partito ma in un senso assai diverso da quello concepito da Eugenio Scalfari. In particolare nel PSI l’Avanti! era un giornale-partito nel senso che chi lo dirigeva era il vero leader del partito, mentre il segretario aveva funzioni soprattutto organizzative. Tale ruolo fu impersonato con particolare vigore da Mussolini dal 1912 al 1914, dopo la vittoria della corrente massimalista nel congresso di Reggio Emilia.
Scalfari, invece, non voleva fare di Repubblica l’organo di un partito, ma voleva dirigere la politica italiana senza assumersi le relative responsabilità. Dal 1976 e per alcuni anni Repubblica costituì un forte elemento di innovazione non solo tecnica (il tabloid) ma soprattutto culturale e politica, riprendendo dall’Espresso la funzione di giornale-denuncia. Attirando dal Giorno una gran parte dei migliori giornalisti italiani, in un panorama fortemente tradizionalista, in particolare nel linguaggio, quale era quello del giornalismo italiano del tempo, si impose come l’espressione della parte più dinamica della società italiana riscuotendo vasti consensi. Con il procedere degli anni ’80 iniziò l’attacco al sistema politico italiano che inizialmente aveva soprattutto l’obiettivo di spingere per l’ingresso del Pci nell’area di governo allo scopo di ampliare le basi della democrazia italiana. Ma in coincidenza non casuale con l’assunzione della direzione del Pci da parte di Berlinguer, quella linea assunse come asse portante l’attacco frontale contro il Psi di Bettino Craxi. La polemica contro Craxi si trasformò in un attacco generalizzato al sistema politico italiano con l’inchiesta di Mani pulite da Repubblica fortemente sostenuta e sollecitata. Verificata l’indisponibilità della società italiana a farsi guidare dal Pci-Pds il bersaglio diventò Berlusconi. L’antiberlusconismo prese il posto dell’anticraxismo e segnò in profondità l’identità di Repubblica. Ma Repubblica non è mai diventato il quotidiano di riferimento del Pd: ha voluto continuare a essere un giornale-partito, anche dopo che Scalfari aveva lasciato formalmente la direzione, facendosi portatore delle esigenze di quella che fu definita la “sinistra diffusa” che spesso coincideva con la parte più estrema.
Questa rassegna non può chiudersi senza il riferimento all’articolo che lo stesso Scalfari ha preteso di pubblicare come editoriale su Repubblica il giorno successivo, 26 aprile (“Il giornale che ho fondato è un fiore che non appassisce”). Come altri hanno già rilevato, è un articolo apertamente minaccioso, che intima a Molinari di non modificare la linea del giornale perché altrimenti provvederà a scatenargli contro, come già aveva minacciato anche la Rangeri, la redazione. A un uomo di 96 anni si può perdonare molto, compresa la divagazione finale sul suo amore per le favole, ma non la motivazione in base alla quale ha pronunciato questa intimazione a Molinari. Lo ha fatto definendosi non il “fondatore” del quotidiano, cosa in sé indiscutibile, ma il “Fondatore” con la effe maiuscola, attribuendo a questa qualità una sorta di ruolo di indirizzo e di controllo, al di fuori di ogni logica di proprietà, oltre che, beninteso, di libertà. Scalfari sembra aver dimenticato che – dopo aver venduto a suo tempo a Carlo De Benedetti il quotidiano, non può adesso ritagliarsi una sorta di ruolo di Lord-Protettore di Repubblica, contrario, ripeto, a ogni logica di proprietà e di libertà. D’altra parte lo stesso De Benedetti, che ha partecipato all’operazione vendendo alla finanziaria della famiglia Agnelli la proprietà del gruppo Gedi, pretende anch’egli, adesso, di affiancarsi al richiamo di Scalfari in un’intervista a Salvatore Merlo comparsa sul Foglio lo stesso 26 aprile nella quale sostiene, tra l’altro, che John Elkann (a cui solo pochi giorni fa ha venduto il gruppo editoriale!) voglia portare “più a destra” il quotidiano.
In conclusione, che cosa ci si può aspettare, dal punto di vista politico e giornalistico, da questa operazione editoriale? Probabilmente molto di più di quanto oggi si possa prevedere perché la fragilità (per non dire peggio) della classe politica e la debolezza dei partiti lascia un margine molto ampio a chi voglia innovare i contenuti e il linguaggio della politica stessa partendo proprio dalle sollecitazioni che possono venire da un quotidiano come Repubblica che tanto peso ha avuto e ha nel campo della sinistra italiana.

Valentino Baldacci

(30 aprile 2020)