La disuguaglianza di stare a casa

Tra chi propone iniezioni di disinfettante per sconfiggere il Covid-19 e chi invece per cavalcare l’onda della paura legata alla crisi economica torna alla carica chiedendo di “riaprire tutto” si avverte che il sovranismo e populismo ritenuto negli scorsi mesi dormiente è ancora vivo e vegeto. Un “etica della responsabilità” la quale dovrebbe essere parte integrante della politica e dei suoi esponenti è purtroppo come sempre quasi del tutto assente. Forse il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte non potrà essere definito un reale demagogo, non pare ricercare, almeno per il momento, grande consenso popolare come altri che fanno capo a specifici partiti politici, guidato da una squadra di tecnici e scienziati in parte anonimi sostiene di seguire soprattutto la prudenza. Tra i vari esperti sembra non esserci un approccio olistico, un vero balagan, i virologi trattano esclusivamente delle problematiche legate al virus e quindi potrebbero consigliare altri cinque mesi tra le mura domestiche, gli economisti auspicano di rimettere in attività il settore produttivo al più presto, e gli psicologi sembrano i meno richiesti. Ma non c’è dubbio che quasi due mesi di reclusione in casa a tempo indeterminato sono deleteri e forse in alcuni casi nocivi quanto il virus, tra una data di scadenza e l’altra è un po’ come giocare al gioco dell’oca con il rischio costante di tornare alla casella di partenza. Per le strade sulle vetrine di alcuni negozi si può ancora leggere un cartello che avvisa i clienti a proposito di una riapertura il 23 marzo, quando uscirono i primi Dpcm molti cittadini pensavano davvero che la quarantena sarebbe durata soltanto quindici giorni e si erano messi in un certo senso l’anima in pace, adesso invece prevale più che altro rabbia ed un’incertezza ancora maggiore. Non c’è soltanto la paura del contagio e quella di tanti piccoli commercianti i quali forse non alzeranno più le serrande dei propri locali, ci sono lavoratori di ogni settore che sopravvivevano in quella “normalità” che tarda ad arrivare, bambini e adolescenti reclusi per giornate intere in casa separati dai loro coetanei e impossibilitati a giocare all’aperto, famiglie divise da confini comunali e regionali (per non dire nazionali) prima inesistenti e adesso invalicabili, ma anche fidanzati e “congiunti” vari che per le stesse ragioni non possono più incontrarsi da settimane. Persone poi che vivono sole in una casa di venti-trenta metri quadri, famiglie numerose costrette ad abitare ugualmente in spazi angusti – un articolo del New York Times titolava che “le case italiane sono diventate una delle prime fonti di contagio”, – anziani per i quali anche una partita a carte al bar sotto casa o una passeggiata nei boschi circostanti riempiva la loro esistenza, violenze domestiche e situazioni depressive di ogni tipo le quali questo stato di cose non potrà fare altro che aggravare. Oltre la retorica “state a casa”, comunque appropriata, poco è stato sottolineato che “stare a casa” non è uguale per tutti, coloro che hanno la fortuna anche solo di un piccolo giardino vivono differentemente la quarantena di chi invece abita in qualche grigio e affollato condominio della periferia romana o dell’hinterland milanese. Non sempre, come spesso ci è stato proposto, il confinamento equivale a starsene sereni su un divano a gustarsi un bel libro e fare il pieno di serie Tv su Netflix per poi sbizzarrirsi ai fornelli nell’attesa che tutto possa riprendere a breve. Di più alcuni governanti stanno approfittando dell’emergenza pandemica per silenziare opposizioni e sedare definitivamente rivolte in piazza, è il caso di alcuni stati dell’Europa Orientale, o dell’Algeria dove continuamente si arrestano giornalisti vicini o semplicemente osservatori del movimento popolare Hirak, come per esempio Khaled Drareni, corrispondente di TV5 Monde e direttore del portale Casbah Tribune.
Non meno importante in tutto questo, è la perdita o sospensione almeno momentanea della dimensione comunitaria – e anche sì di quella ebraica, molto più importante rispetto a quella individuale -, forse anche i rari momenti d’incontro in un supermercato o in fila davanti ad una farmacia sono molto più intensi e significativi rispetto a prima, resta ancora da chiedersi cosa avverrà dopo… una domanda, come tante altre, senza nessuna risposta.

Giorgio Berruto