La società del limbo
Viviamo un tempo di sospensione, dove ci rendiamo conto che molte cose stanno sfuggendo al nostro controllo ma non sappiamo che cosa da ciò ne potrà concretamente derivare. Anche per questo temiamo il futuro a venire, una paura che avevamo coltivato – almeno in parte – già nel recente passato e che adesso si sta facendo endemica. Il senso di essere consegnati ad un “limbo” glaciale, freddo e inospitale, una sorta di area senza tempo (e quindi anche priva di prospettive), accompagna non soli molti connazionali ma tanti concittadini di questo pianeta. La speranza è che sia una fase di transizione, del tutto occasionale. Ma c’è la paura che, a conti fatti, così non sarà. Anche per questo non è vero che la pandemia ci renda «uguali». È sarà ancora peggio quando, mitigatesi le immediate urgenze sanitarie, l’emergenza economica avrà la prevalenza ossessiva su qualsiasi ordine di giudizio. Ci si deve infatti preparare ad un lunghissimo periodo di tempo di trasformazione sistemica e sistematica. Sistemica nel senso che riguarda l’interno circuito economico ed, in immediato riflesso, sociale e civile, in tutti i suoi aspetti a livello internazionale se non planetario. Non è un problema di singole “filiere” e neanche di “crisi industriali” circoscrivibili ad ambiti definiti. Per ciò si tratta di un questione di sistema, chiamando in causa il funzionamento nella sua globalità. Sistematica poiché coinvolge tutti i diversi passaggi dei distinti percorsi economici, ne mette in fibrillazione ogni transito, agita tutti gli anelli della catena. A modo suo, ha una potenza pandemica. Perché, allora, dire che non siamo uguali dinanzi ad un tale stato di cose se, per diversi aspetti, se chiama ciascuno di noi in causa? La risposta è quasi ovvia: se tutti dobbiamo confrontarci con una situazione che stravolge il nostro orizzonte, non è meno vero che ognuno di noi ha dotazioni economiche, culturali e di relazione (i rapporti tra omologhi, che permettono di mettere in circolo risorse in una logica di scambio reciproco) molto differenti. La qual cosa incide fortemente sulla vulnerabilità di coloro che si trovavano già in una condizione di oggettivo svantaggio e che adesso rischiano di sommare, alla preesistente posizione subordinata, handicap aggiuntivi. Le diseguaglianze incidono potentemente al riguardo. Ed incidono, di riflesso, anche su coloro che si ritengono al riparo dai loro immediati riflessi; poiché l’ulteriore indebolimento di ampi strati della società rischia, inesorabilmente, di ripercuotersi su gruppi, ceti e aggregazioni che si ritengono al riparo quanto meno dagli immediati effetti dei mutamenti. Al centro della grande trasformazione, peraltro già in atto ben prima dell’inizio del contagio ma destinata d’ora innanzi a proseguire con passo accelerato, c’è il rapporto tra lavoro e coesione sociale, tra redditi da prestazione e ricchezza prodotta socialmente. Mentre i primi elementi dell’equazione sono in discesa, i secondi seguono tracciati sempre più spesso indipendenti da quella unità di tempo e spazio che, nella vecchia cultura economica industriale, erano invece facilmente identificabili. Le diseguaglianze colpiscono, fino a segmentare e poi a scomporre, quello che conosciamo come «ceto medio», un termine nebuloso e onnicomprensivo che si rifà ad un ampissimo segmento delle nostre società. Va ribadito un tale riscontro in quanto se parliamo di differenziali eccessivi, le loro ricadute sono destinate ben presto a mettere a durissima prova la tenuta della società in quanto tale. Posto che una società non sia mai un tutto omogeneo, è comunque un sistema di parti interagenti tra di loro. Se le cose stanno in tali termini, anche chi non viene colpito da subito dai mutamenti in atto verrà chiamato, prima o poi, a pagare un qualche dazio. Lo stesso contagio, peraltro, è agevolato nella sua diffusione dall’espandersi delle fragilità economiche, culturali e sociali. Non è solo un problema sanitario, evidentemente, ma anche civile, laddove quest’ultimo termine rimanda al grado di capacità di prevenzione e di gestione in sicurezza di una pandemia. Più una società è povera, minori sono le linee di difesa. Un fattore decisivo nella diffusione della “spagnola”, la pandemia che attraversò tra il 1918 e il 1919 il pianeta come un flagello, in più ondate, furono gli effetti della guerra: il transito di truppe in Stati diversi (in tutta probabilità il contagio ebbe inizio in Texas), l’indebolimento della condizione generale della salute pubblica, le parallele carestie che si accompagnarono ai combattimenti e ai mesi successivi alla loro conclusione. Due esempi, al presente: le persone che vivono con un reddito più basso, svolgono lavori meno protetti e, per paura di perdere la propria occupazione, prevedibilmente continueranno a lavorare anche in contesti di contagio molto elevato. Non basta, al riguardo, fingere di potere garantire che si provvederà per evitare che ciò si verifichi: affermazioni di questo genere, sono tanto diffuse in chiave consolatoria quanto costantemente smentite dalla consapevolezza che ci deriva dall’esperienza del passato, anche recente. In tali condizioni, non solo rischiano molto di più di contrarre la malattia, ma di moltiplicarla sia nel proprio ambito che, in un processo a catena, anche in altri ambienti con i quali possono entrare in contatto anche solo occasionale. Inoltre, chi meno possiede ha anche minori possibilità di consentire ai propri figli di usufruire, tra le altre cose, della didattica a distanza. I quali, in tali condizioni, rischiando di perdere la possibilità di accrescere le loro competenze, perderanno opportunità per il loro futuro. Non è una esclusiva questione individuale: è un decremento di capitale sociale, del quale l’Italia peraltro soffre da troppo tempo. Ciò che ne deriva è infatti, ancora una volta, un declassamento non solo degli individui assediati in questo circolo infernale ma anche della società nel suo insieme. Una mobilità sociale al ribasso, va ricordato, si riflette su tutta la società. Ed è illusorio pensare di rispondere ad un tale stato delle cose esclusivamente con risorse proprie, quand’anche se ne abbiano a disposizione. Per l’appunto: ci troviamo dinanzi ad una emergenza sistemica e sistematica, che per essere affrontata – in quanto indice immediato di una più ampia trasformazione del lavoro, della ricchezza, degli stessi rapporti geopolitici in atto – richiede la capacità di affrontare di petto un’agenda molto complessa. Pesa in tutto ciò, il drammatico ritardo con il quale si è ragionato sui mutamenti già consumatisi prima dell’inizio della pandemia, cercando di mettere singole pezze occasionali su specifici aspetti problematici, a fronte di un mutamento di quadro che avrebbe richiesto – invece – una capacità di governo dei processi collettivi di ben altra qualità. Dopo di che nulla sarà più come prima ma, in questa delicatissima fase, grandissima è la confusione così come la mancanza di direzione. Speriamo in bene. Quanto meno, in qualcosa di meglio di ciò che già non ci è consegnato dai nudi fatti.
Claudio Vercelli
(3 maggio 2020)