Quando il tempo delle lacrime
incontra quello della gioia

Sulla base degli avvenimenti delle ultime settimane ho pensato di riproporre un testo inviato agli iscritti della Comunità ebraica di Venezia il 18 aprile di due anni fa.
Ogni Stato stabilisce le sue feste nazionali e Israele ha stabilito il 5 di Iyar come Giorno dell’Indipendenza, così come l’Italia ha fissato come giorni festivi il 25 aprile e il 2 giugno, feste della Liberazione e della Repubblica. La festa della Liberazione e quella dell’Indipendenza cadono sempre nello stesso periodo dell’anno e hanno in comune elementi simili, ma sono tra loro profondamente diverse.
Uno degli aspetti che fanno la differenza tra questi due giorni è il fatto che Yom ‘Azmaùt viene festeggiato tanto in Israele (cosa del tutto naturale) quanto nei paesi della Diaspora.
È questo un fatto anomalo: infatti è come se gli americani di origine italiana, oltre a festeggiare il 4 luglio, volessero celebrare anche il 2 giugno e il 25 aprile, un giorno quest’ultimo che ha certo segnato una svolta, ma solo per gli italiani che vivevano in Italia durante il fascismo o che vi hanno fatto ritorno dopo essere andati in esilio. Questa dicotomia dell’ebreo che afferma di essere interamente italiano, ma anche completamente ebreo, ha dato adito in passato all’accusa della doppia lealtà ebraica.
La diversità del modo con cui gli ebrei – ovunque essi si trovino – hanno vissuto e vivono gli eventi impone una domanda: Yom ‘Azmaùt è una festa “nazionale”, “laica” o “religiosa”? Anche se l’esperienza ebraica non può essere limitata a un fatto meramente “religioso” o “nazionale”, non si può negare che nel mondo moderno, e in quello occidentale in particolare in cui la “fede” nazionale è così labile, festeggiare, e per di più “religiosamente”, una festa “nazionale” di un altro Stato è un fatto estremamente contraddittorio.
Qual è quindi il significato che l’ebreo contemporaneo e le generazioni future dovranno dare a questa giornata? In altre parole, Yom ‘Azmaùt non ha niente a che fare con le altre feste dell’anno ebraico, oppure si alimenta della medesima loro linfa e contiene qualcosa che lo lega intimamente a esse?
Qualcosa possiamo imparare dalla storia di Israele, dove non sono mancate polemiche tra i Maestri circa l’opportunità di istituire nuove feste, come nel caso di Purim e Chanukkà. Nonostante siano trascorsi quasi settanta anni, il processo di accettazione di Yom ‘Azmaùt non è ancora ultimato, anzi in certi ambienti “ortodossi” esso non è mai iniziato.
Ora, comunque si voglia guardare all’evento della nascita del terzo Stato ebraico, è innegabile che si tratta di un fatto di per sé rivoluzionario, prodotto forse dall’unica rivoluzione veramente riuscita nel nostro secolo, quella sionista. Ma quali saranno gli strumenti che faranno sì che la festa potrà essere trasmessa alle future generazioni e da loro accettata? Come per il passato, lo strumento sarà sempre quello di riempirla di contenuti riconducibili alla Halakhà e alla Aggadà, alla legge ebraica e al pensiero che la sottende.
Per quanto riguarda la Halakhà, ecco alcune domande che impone l’istituzione di una festa:
Chi ha il potere di istituirla?
Quali sono le norme che la caratterizzeranno?
Si devono dire, come per Chanukkà e Purim, le benedizioni Shehecheyanu , “che ci ha mantenuto in vita fino a questo tempo” e She’asà nissìm “che ha operato miracoli”.
E’ opportuno dire l’Hallèl come a Chanukkà per un “miracolo” accaduto in terra d’Israele.
Si possono o devono apportare le modifiche alla preghiera, quali ad esempio per esempio “Al hanissìm, per i miracoli nella ‘Amidà, leggere un brano appropriato per la lettura pubblica della Torà o dei Profeti (Haftarà).
Si può interrompere il periodo di “lutto” dell’Omer?
L’introduzione di Yom ‘Azmaùt come festa comporta quindi da una parte dei cambiamenti nella sfera del Beth hakeneseth, ma dall’altra dei cambiamenti in quella che è la vita pubblica e politica che trova la sua espressione nella Keneseth, il parlamento israeliano.
Yom Azmaut e le altre feste ebraiche.
Per quanto riguarda la Agadà, l’elaborazione filosofica, non mancano certamente gli agganci per “dimostrare” come l’avvento di questa giornata non sia un fatto casuale. Intanto, i Maestri avevano rilevato fin da tempi immemorabili che, basandosi sul giorno in cui cadeva Pesach, c’era un sistema semplice per poter individuare il giorno della settimana in cui cadono le altre feste: infatti bastava applicare il sistema mnemotecnico dell’Atbash (l’alfabeto ebraico al contrario) ai giorni di Pesach.
Il giorno in cui cade il primo giorno (alef) di Pesach, corrisponde al giorno della settimana in cui cade Tishà beav (tav); il secondo (bet) quello in cui cade Shavuoth (shin); etc. In questo schema mancava una corrispondenza tra il settimo giorno, rappresentato dalla זzain, e la ‘ain ע . Con l’introduzione di Yom Atzmaùt anche il settimo giorno di Pesach ha un suo partner, appunto ‘Atzmauth che inizia con la ‘ain.
Ma v’è molto di più. Le feste date dalla Torà (Pèsach, Shavu’òt e Sukkòt) sono un’espressione di quello che secondo la mistica ebraica è chiamato “il risveglio dall’alto” (hit’arutà del’èla); mentre Chanukkà e Purim sono un’espressione del “risveglio dal basso” (hit’arutà diltatà).
Come è scritto nel libro dei Maccabei, Chanukkà fu istituita in corrispondenza di Sukkòt (“fecero otto giorni di festa come a Sukkòt”); Purìm completa Shavu’òt, perché è scritto che “a Purim gli ebrei accettarono volontariamente la Torà che avevano accettato a Shavuòt percè costretti “dal monte capovolto sulle loro teste”: Dio avrebbe detto agli ebrei che si trovavano alle pendici del Monte Sinai. “se accettate la Torà bene, altrimenti qi sarà la vostra tomba”; per completare il quadro, mancava una festa che corrispondesse a Pèsach. In effetti “la festa della liberazione” e “la festa dell’indipendenza” sono tra loro simili. La differenza sta proprio nel fatto che la seconda è una conseguenza del “risveglio dal basso” e ha richiesto e richiede per essere conservata una partecipazione attiva del popolo.
Uno degli elementi basilari del pensiero della Torà, infatti, resta quello secondo cui non è tanto importante la teoria o l’interpretazione, quanto l’azione. La libertà – come ogni altra grande idea – non può quindi essere un’affermazione astratta, ma qualcosa che viene accompagnato da atti concreti da compiere, sia individualmente che nell’ambito della società. Ogni cinquanta anni, nel Giubileo, accadevano due fatti importanti strettamente collegati tra loro: da una parte, la liberazione di tutti gli schiavi, dall’altra la restituzione della terra al padrone originario, cioè a colui che l’aveva ricevuta al tempo della conquista di Eretz Israèl da parte di Giosuè, ma l’aveva poi venduta in seguito a difficoltà di natura economica. Se con la festa di Pésach l’ebreo raggiunge la libertà dalla schiavitù, solo il ritorno in Eretz Israèl, come popolo indipendente in possesso dei mezzi di produzione, è la garanzia dell’indipendenza.
La redenzione delle ossa secche
Per capire appieno l’importanza di questa festa dobbiamo però fare ancora un passo. La vita ebraica si è svolta tra due poli: quello della Diaspora (Golà = גולה) e quello della Redenzione (Gheullà = גאולה). La differenza tra le due parole sta solo nell’aggiunta di una א Àlef, che è la prima lettera di El-okìm (Dio), l’unità irraggiungibile nel mondo della dualità, rappresentato dalla ב Bet, lettera con cui comincia la Torà.
La Àlef è anche quella lettera che ha trasformato le עצמות (‘Atzamòt), le ossa secche della visione di Ezechiele (cap. 37), in ‘Atzmaùt עצמאות: quando oramai, come dice il popolo, cioè le ossa secche di Ezechiele, “era persa la speranza” – avdà tikvatènu, le ossa tornano a rivivere. Proprio così facevano pensare le ossa secche degli ebrei assassinati nei Campi, ma lo Spirito ha soffiato nelle ossa e queste sono tornate a rivivere, trasformando la golà in gheullà e le ‘atzamòt in ‘atzmaùt. Proprio queste parole sono state inserite nell’inno Hatikvà – la speranza dello Stato d’Israele: “Ancora non è persa la nostra speranza di essere un popolo libero nella nostra terra”.
La stessa Alef è la lettera che non viene usata come prima lettera della Bibbia nel racconto della Creazione. La Alef è anche la prima lettera del nome divino che viene usato nel racconto della creazione (Elohim לוקים–א ) e la prima lettera della parola Adam (אדם) che traduciamo di norma con Adamo, uomo, ma che significa più in generale persona. Sta all’uomo far sì che la sua Alef incontri quella del nome divino. Compito dell’uomo è portare a compimento il senso dell’essere lui stato creato a immagine di Dio.
Nonostante i tentativi di “rianimazione”, tutte le feste nazionali corrono il rischio di perdere il loro significato con il passare del tempo e si trasformano in una semplice giornata di vacanza. Gli eventi che hanno caratterizzato la storia ebraica dalla Shoà in poi, vanno visti come un processo che non può terminare con Yom Azmaut. Secondo la definizione che noi troviamo nella preghiera per “la pace dello Stato”, Yom ‘Atzmaùt è “l’inizio della fioritura della nostra redenzione”, inizio che dovrà portare al cambiamento vero e proprio e che è tuttora in corso. Tuttavia, come per ogni cosa o evento nuovo, rav Maimon – tra i firmatari della Carta d’Indipendenza – ha ritenuto giusto pronunciare la benedizione di Sheecheyànu.
Così fin dall’inizio della fondazione Yom ‘Atzmaùt ha assunto un significato in cui è difficile distinguere il momento “laico” da quello “religioso”. La partecipazione degli ebrei della Diaspora e di molti amici non ebrei non può essere ricondotta all’espressione nazionalista di mera identificazione con lo Stato d’Israele; essa rappresenta piuttosto un momento di sintesi religiosa, che come tale viene intesa, magari solo sul piano dell’inconscio, anche dai “laici”.
In un momento tragico come quello attuale che coinvolge il mondo intero – la pandemia del Covit 19, – uomini di fede e uomini che non lo sono devono riflettere e collaborare affinché, superata la tempesta, l’Arca in cui si trovano riprenda a galleggiare con sicurezza. La società moderna deve recuperare i valori insiti nell’essenza dell’uomo e della sua funzione nel creato, per dare un senso alla sua esistenza
Per il popolo ebraico ‘Atzmaut rappresenta dunque un punto di incontro del suo destino, dove la storia incrocia lo spirito, l’immanente il trascendente, e il “tempo delle lacrime”, “il tempo delle risa”.
Con i miei migliori auguri di una redenzione completa, presto ai nostri giorni.

Scialom Bahbout

Ogni Stato stabilisce le sue feste nazionali e Israele ha stabilito il 5 di Iyar come Giorno dell’Indipendenza, così come l’Italia ha fissato come giorni festivi il 25 aprile e il 2 giugno, feste della liberazione e della repubblica. La festa della liberazione e quella dell’Indipendenza cadono sempre nello stesso periodo dell’anno e hanno in comune elementi simili, ma sono tra loro profondamente diverse.
Uno degli aspetti che fanno la differenza tra questi due giorni è il fatto che Yom ‘Azmaùt viene festeggiato tanto in Israele (cosa del tutto naturale) quanto nei paesi della Diaspora.
E’ questo un fatto anomalo: infatti è come se gli americani di origine italiana, oltre a festeggiare il 4 Luglio, volessero celebrare anche il 2 giugno e il 25 aprile, un giorno quest’ultimo che ha certo segnato una svolta, ma solo per gli italiani che vivevano in Italia durante il Fascismo o che vi hanno fatto ritorno dopo essere andati in esilio. Questa dicotomia dell’ebreo che afferma di essere interamente italiano, ma anche completamente ebreo, ha dato adito in passato all’accusa della doppia lealtà ebraica.
La diversità del modo con cui gli ebrei – ovunque essi si trovino – hanno vissuto e vivono gli eventi impone una domanda: Yom ‘Azmaùt è una festa “nazionale”, “laica” o “religiosa”? Anche se l’esperienza ebraica non può essere limitata a un fatto meramente “religioso” o “nazionale”, non si può negare che nel mondo moderno, e in quello occidentale in particolare in cui la “fede” nazionale è così labile, festeggiare, e per di più “religiosamente”, una festa “nazionale” di un altro Stato è un fatto estremamente contraddittorio.
Qual è quindi il significato che l’ebreo contemporaneo e le generazioni future dovranno dare a questa giornata? In altre parole, Yom ‘Azmaùt non ha niente a che fare con le altre feste dell’anno ebraico, oppure si alimenta della medesima loro linfa e contiene qualcosa che lo lega intimamente a esse?
Qualcosa possiamo imparare dalla storia di Israele, dove non sono mancate polemiche tra i Maestri circa l’opportunità di istituire nuove feste, come nel caso di Purim e Chanukkà. Nonostante siano trascorsi quasi settanta anni, il processo di accettazione di Yom ‘Azmaùt non è ancora ultimato, anzi in certi ambienti “ortodossi” esso non è mai iniziato.
Ora, comunque si voglia guardare all’evento della nascita del terzo Stato ebraico, è innegabile che si tratta di un fatto di per sé rivoluzionario, prodotto forse dall’unica rivoluzione veramente riuscita nel nostro secolo, quella sionista. Ma quali saranno gli strumenti che faranno sì che la festa potrà essere trasmessa alle future generazioni e da loro accettata? Come per il passato, lo strumento sarà sempre quello di riempirla di contenuti riconducibili alla Halakhà e alla Aggadà, alla legge ebraica e al pensiero che la sottende.
Per quanto riguarda la Halakhà, ecco alcune domande che impone l’istituzione di una festa:
– Chi ha il potere di istituirla?
– Quali sono le norme che la caratterizzeranno?
– Si devono dire, come per Chanukkà e Purim, le benedizioni Shehecheyanu , “che ci ha mantenuto in vita fino a questo tempo” e She’asà nissìm “che ha operato miracoli”.
– È opportuno dire l’Hallèl come a Chanukkà per un “miracolo” accaduto in terra d’Israele
– Si possono o devono apportare le modifiche alla preghiera, quali ad esempio per esempio “Al hanissìm, per i miracoli nella ‘Amidà, leggere un brano appropriato per la lettura pubblica della Torà o dei Profeti (Haftarà).
– Si può interrompere il periodo di “lutto” dell’Omer?
L’introduzione di Yom ‘Azmaùt come festa comporta quindi da una parte dei cambiamenti nella sfera del Beth hakeneseth, ma dall’altra dei cambiamenti in quella che è la vita pubblica e politica che trova la sua espressione nella Keneseth, il parlamento israeliano.

Yom Azmaut e le altre feste ebraiche

Per quanto riguarda la Agadà, l’elaborazione filosofica, non mancano certamente gli agganci per “dimostrare” come l’avvento di questa giornata non sia un fatto casuale. Intanto, i Maestri avevano rilevato fin da tempi immemorabili che, basandosi sul giorno in cui cadeva Pesach, c’era un sistema semplice per poter individuare il giorno della settimana in cui cadono le altre feste: infatti bastava applicare il sistema mnemotecnico dell’Atbash (l’alfabeto ebraico al contrario) ai giorni di Pesach.
Il giorno in cui cade il primo giorno (alef) di Pesach, corrisponde al giorno della settimana in cui cade Tishà beav (tav); il secondo (bet) quello in cui cade Shavuoth (shin); etc. In questo schema mancava una corrispondenza tra il settimo giorno, rappresentato dalla זzain, e la ‘ain ע . Con l’introduzione di Yom Atzmaùt anche il settimo giorno di Pesach ha un suo partner, appunto ‘Atzmauth che inizia con la ‘ain.
Ma v’è molto di più. Le feste date dalla Torà (Pèsach, Shavu’òt e Sukkòt) sono un’espressione di quello che secondo la mistica ebraica è chiamato “il risveglio dall’alto” (hit’arutà del’èla); mentre Chanukkà e Purim sono un’espressione del “risveglio dal basso” (hit’arutà diltatà).
Come è scritto nel libro dei Maccabei, Chanukkà fu istituita in corrispondenza di Sukkòt (“fecero otto giorni di festa come a Sukkòt”); Purìm completa Shavu’òt, perché è scritto che “a Purim gli ebrei accettarono volontariamente la Torà che avevano accettato a Shavuòt percè costretti “dal monte capovolto sulle loro teste”: Dio avrebbe detto agli ebrei che si trovavano alle pendici del Monte Sinai. “se accettate la Torà bene, altrimenti qi sarà la vostra tomba”; per completare il quadro, mancava una festa che corrispondesse a Pèsach. In effetti “la festa della liberazione” e “la festa dell’indipendenza” sono tra loro simili. La differenza sta proprio nel fatto che la seconda è una conseguenza del “risveglio dal basso” e ha richiesto e richiede per essere conservata una partecipazione attiva del popolo.
Uno degli elementi basilari del pensiero della Torà, infatti, resta quello secondo cui non è tanto importante la teoria o l’interpretazione, quanto l’azione. La libertà – come ogni altra grande idea – non può quindi essere un’affermazione astratta, ma qualcosa che viene accompagnato da atti concreti da compiere, sia individualmente che nell’ambito della società. Ogni cinquanta anni, nel Giubileo, accadevano due fatti importanti strettamente collegati tra loro: da una parte, la liberazione di tutti gli schiavi, dall’altra la restituzione della terra al padrone originario, cioè a colui che l’aveva ricevuta al tempo della conquista di Eretz Israèl da parte di Giosuè, ma l’aveva poi venduta in seguito a difficoltà di natura economica. Se con la festa di Pésach l’ebreo raggiunge la libertà dalla schiavitù, solo il ritorno in Eretz Israèl, come popolo indipendente in possesso dei mezzi di produzione, è la garanzia dell’indipendenza.

La redenzione delle ossa secche

Per capire appieno l’importanza di questa festa dobbiamo però fare ancora un passo. La vita ebraica si è svolta tra due poli: quello della Diaspora (Golà = גולה) e quello della Redenzione (Gheullà = גאולה). La differenza tra le due parole sta solo nell’aggiunta di una א Àlef, che è la prima lettera di El-okìm (Dio), l’unità irraggiungibile nel mondo della dualità, rappresentato dalla ב Bet, lettera con cui comincia la Torà.
La Àlef è anche quella lettera che ha trasformato le עצמות (‘Atzamòt), le ossa secche della visione di Ezechiele (cap. 37), in ‘Atzmaùt עצמאות: quando oramai, come dice il popolo, cioè le ossa secche di Ezechiele, “era persa la speranza” – avdà tikvatènu, le ossa tornano a rivivere. Proprio così facevano pensare le ossa secche degli ebrei assassinati nei Campi, ma lo Spirito ha soffiato nelle ossa e queste sono tornate a rivivere, trasformando la golà in gheullà e le ‘atzamòt in ‘atzmaùt. Proprio queste parole sono state inserite nell’inno Hatikvà – la speranza dello Stato d’Israele: “Ancora non è persa la nostra speranza di essere un popolo libero nella nostra terra”.
La stessa Alef è la lettera che non viene usata come prima lettera della Bibbia nel racconto della Creazione. La Alef è anche la prima lettera del nome divino che viene usato nel racconto della creazione (Elohim לוקים–א ) e la prima lettera della parola Adam (אדם) che traduciamo di norma con Adamo, uomo, ma che significa più in generale persona. Sta all’uomo far sì che la sua Alef incontri quella del nome divino. Compito dell’uomo è portare a compimento il senso dell’essere lui stato creato a immagine di Dio.
Nonostante i tentativi di “rianimazione”, tutte le feste nazionali corrono il rischio di perdere il loro significato con il passare del tempo e si trasformano in una semplice giornata di vacanza. Gli eventi che hanno caratterizzato la storia ebraica dalla Shoà in poi, vanno visti come un processo che non può terminare con Yom Azmaut. Secondo la definizione che noi troviamo nella preghiera per “la pace dello Stato”, Yom ‘Atzmaùt è “l’inizio della fioritura della nostra redenzione”, inizio che dovrà portare al cambiamento vero e proprio e che è tuttora in corso. Tuttavia, come per ogni cosa o evento nuovo, rav Maimon – tra i firmatari della Carta d’Indipendenza – ha ritenuto giusto pronunciare la benedizione di Sheecheyànu.
Così fin dall’inizio della fondazione Yom ‘Atzmaùt ha assunto un significato in cui è difficile distinguere il momento “laico” da quello “religioso”. La partecipazione degli ebrei della Diaspora e di molti amici non ebrei non può essere ricondotta all’espressione nazionalista di mera identificazione con lo Stato d’Israele; essa rappresenta piuttosto un momento di sintesi religiosa, che come tale viene intesa, magari solo sul piano dell’inconscio, anche dai “laici”.
In un momento tragico come quello attuale che coinvolge il mondo intero – la pandemia del Covid-19, – uomini di fede e uomini che non lo sono devono riflettere e collaborare affinché, superata la tempesta, l’Arca in cui si trovano riprenda a galleggiare con sicurezza. La società moderna deve recuperare i valori insiti nell’essenza dell’uomo e della sua funzione nel creato, per dare un senso alla sua esistenza
Per il popolo ebraico ‘Azmaut rappresenta dunque un punto di incontro del suo destino, dove la storia incrocia lo spirito, l’immanente il trascendente, e il “tempo delle lacrime”, “il tempo delle risa”.
Con i miei migliori auguri di una redenzione completa, presto ai nostri giorni.

Rav Scialom Bahbout

(3 maggio 2020)