Sapere o ignorare
Conviene sapere o non conviene sapere? Vi sono, more solito, indicazioni e controindicazioni, riassunte in:
Qohelet 1.[18]: “perché molta sapienza, molto affanno;
chi accresce il sapere, aumenta il dolore” e indi nella Genesi 1.3: “ [3] ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino il Signore ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”.
[4] Ma il serpente disse alla donna: “Non morirete affatto!
[5] Anzi, il Signore sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come il Signore, conoscendo il bene e il male”.
Parole, quelle predette, poi confermate in Treasure Island II- X – The Voyage: “But good did come of the apple barrel, as you shall hear, for if it had not been for that, we should have had no note of warning and might all have perished by the hand of treachery. This was how it came about”. Robert Louis Stevenson è reciso nella summa divisio fra buoni e cattivi, e lo chiarisce fin dalle vicende dell’Admiral Benbow, ma fa un’eccezione per Long John Silver, un furfante ambiguo.
Toccherà ad un oggetto (un frutto) decidere l’esatta collocazione dello spartiacque fra bene e male, il quale frutto poi s’accompagnerà all’idea del viaggio, verso un’isola dove giace un tesoro oppure verso la Terra Promessa, che costituisce essa stessa un tesoro. È così che dai testi sacri dell’ebraismo si dipanano tutte le storie; anche se non lo sa, anche Jim Hawkins imbocca il sentiero di Adamo. Come in tutti i casi di plagio, ci si rivolta spesso contro l’autore del testo originale, pur sapendo che l’atto è blasfemo e confidando che il cielo sia privo di padrone, come una qualsiasi res nullius, oppure si opta per qualche beneficio, il quale si presenta per ciò che realmente è: molto poco, molto maledetto ed assai immediato.
A Jorge Luis Borges è stato rimproverato l’interesse per Stevenson, attribuendogli subdolamente delle fissazioni infantili: il potere dell’invidia. Daniel Balderston (El precursor velado: R. L. Stevenson en la obra de Borges, Buenos Aires, 1985, tradotto da: Borges frame of reference, The strange case of Robert LLouis Stevenson, 1981) così descrive il misfatto, nella mia traduzione: “negli anni, Borges ha sconcertato i suoi critici insistendo nell’importanza che rivestono per lui degli autori come Stevenson, Wells, Chesterton e Kipling, e ancor di più nel dichiarare che tutta la sua opera deriva da questi ed altri scrittori. George Steiner commenta: “Gli scrittori per lui più significativi, che servono quasi come maschere alternative della propria persona, sono De Quincey, Stevenson, Chesterton e Kipling. Non c’è dubbio che siano dei maestri, ma con una connotazione meramente accessoria, mentre William Gass ridicolizza Borges per “un gusto che continua ad essere adolescenziale, un gusto pacificato in un angolo tranquillo, e una mente seriamente interessata a certe forme dubbie o immature, forme che debbono essere superate, non meramente utilizzate”. Rivka Galchen, sul New York Times (Borges on Pleasure Island, 25 luglio 2010) deride Borges dicendo che per lui Stevenson era una divinità riverita, sebbene l’opera di Stevenson fosse considerata roba da fanciulli. Galchen, da buona psichiatra convertita alle lettere, pensa di parlare di letteratura quando descrive sé stessa, perché Stevenson è considerato da noi un autore fondamentale. Come James Barrie, scriveva per il figliastro e, sempre come James Barrie, ogni sua creazione aveva un doppio (nel mio romanzo Gite ad Auschwitz qualche doppio lo si trova): per ragguagli, rivolgersi a Lewis Carroll. Invece, quale strizza cervelli, Galchen avrebbe potuto disquisire di mele, del loro significato simbolico e della natura del frutto proibito, così come avrebbe potuto “se pencher” sugli ulteriori simbolismi dell’infanzia. Nella Genesi, troviamo l’innocenza che si ascrive all’infanzia e troviamo il frutto; non definendolo, è stato ben definito, ed è forse per quello che non conviene sapere.
Emanuele Calò, giurista