Epidemia e istituzioni

Finora non ho scritto una riga in merito all’epidemia di coronavirus e alle sue conseguenze: in un Paese in cui tutti o quasi hanno scoperto di essere quanto meno cultori della materia «virologia», sia per quanto riguarda i suoi aspetti più propriamente medici, sia, ancor più, per le implicazioni etiche ed esistenziali che essa ha comportato, mi sono reso conto che qualunque cosa avessi potuto dire era già stata detta e ripetuta. In questi casi perciò è meglio tacere.
Adesso però, con l’adozione da parte del Governo dei provvedimenti relativi alla ripresa delle attività, vedo che questi provvedimenti incidono su aspetti di tipo istituzionale e non solo sui quali mi sento di poter dire qualcosa. Parto da uno dei provvedimenti che più hanno suscitato malumore e anche sarcasmo – quello che limita, a partire dal 4 maggio, la possibilità di contatti con i parenti fino al sesto grado e la esclude per persone che – ancorché legate da forti vincoli di amicizia – non posseggono questa caratteristica della consanguineità, anche se poi faticosamente si ammettono eccezioni per persone legate dai cosiddetti “affetti stabili”, cioè, pare di capire, per i fidanzati.
Forse non si è riflettuto abbastanza sul fatto che questo provvedimento non è frutto di un errore di valutazione ma di una ben precisa concezione dell’assetto sociale che ha due caratteristiche: la prima riflette un sistema di relazioni sociali che è andato in crisi da più di cinquanta anni, quello che vedeva nella famiglia il centro della propria vita e della propria identità, una concezione che si è sbriciolata – soprattutto nell’Italia centro-settentrionale – negli anni intorno al 1968 e che solo chi ha vissuto prima di quel periodo oggi ricorda. La seconda è che quel modello di organizzazione sociale era, e in una certa misura lo è ancora, tipica dell’Italia meridionale, dove il clan familiare è stato in passato la forma fondamentale di aggregazione sociale: ancor oggi l’idea di famiglia estesa ha nel Meridione una sua realtà, anche se meno cogente che nel passato. Fu nel 1976 che il sociologo americano Edward C. Banfield pubblicò il suo «Le basi morali di una società arretrata», frutto di una ricerca sul campo, in Basilicata, condotta con l’aiuto di Manlio Rossi Doria. Banfield coniò il termine di «familismo amorale» che ebbe molta fortuna e che esprimeva il concetto che il solo principio valido per quella società era il legame familiare che superava ogni altro principio etico e soprattutto toglieva valore ad ogni altra forma di riferimento sociale più ampia, in particolare quella relativa alle formazioni di carattere pubblico e in primo luogo allo Stato.
Se questa diversità di organizzazione sociale riguarda essenzialmente le relazioni interpersonali e quindi la sfera della società civile, tuttavia essa ha avuto anche un riflesso nella sfera della politica ma anche in quella delle istituzioni. In realtà è da decenni che il Paese aspetta una riforma delle istituzioni.
Le polemiche che si sono scatenate in questi giorni tra Governo e Regioni – in particolare con quelle dell’Italia meridionale – sono state presentate come frutto di contrasti tra schieramenti politici, e indubbiamente questo aspetto è presente. Ma dietro questo aspetto di facciata ce n’è un altro più profondo, quello che, una volta di più, ha messo in evidenza le grandi differenze, non solo sociali ed economiche ma anche culturali, tra le due parti del Paese. E’ un tema che è sempre stato presente sottotraccia in tutta la nostra storia e che periodicamente riemerge per essere subito soffocato per timore di mettere in crisi l’unità politica del Paese. Ma ignorare la realtà è sempre la strada peggiore e poiché in questi giorni si è ripetuto tante volte che «niente sarà più come prima», questa riflessione dovrebbe valere anche per l’assetto istituzionale del Paese. In questo senso una lezione che l’epidemia ci lascia si articola in due direzioni: una è la necessità del riconoscimento delle profonde differenze territoriali che caratterizzano il nostro Paese e quindi la necessità di adottare un modello federalistico fortemente accentuato, che superi l’ambiguo assetto regionalistico che finora è stato fonte di debolezza e di conflitti. Dall’altro la necessità di una direzione politica nazionale forte, che si basi sul rafforzamento del potere esecutivo, lo sottragga ai giochi spesso inconcludenti di un parlamentarismo sempre più esausto, e riaffermi il principio della divisione dei poteri in equilibrio tra loro. A un potere esecutivo forte, quale sarebbe quello espresso con il sistema del premierato, dovrebbe corrispondere un sistema di garanzie e di pesi e contrappesi rappresentato dal ruolo di garanzia del Presidente della Repubblica, dall’indipendenza della magistratura, dal ruolo legislativo dello stesso Parlamento, dall’assetto federale. Niente in fondo di così straordinario: a parte il sistema del premierato, è il modello istituzionale del Paese cardine della democrazia occidentale, gli Stati Uniti d’America.
Ogni tanto si risente parlare della necessità di una nuova Assemblea costituente o, più semplicemente, di una legislatura costituente. Questa sarebbe l’occasione buona, se davvero niente può essere più come prima. Ma sapranno le forze politiche, così deboli, essere capaci di una scelta del genere? C’è da dubitarne.

Valentino Baldacci