Un viaggio inevitabile
“La cacciata dal paradiso è eterna nella sua parte principale: la cacciata dal paradiso è sì definitiva, e la vita nel mondo inevitabile, ma l’eternità dell’evento (o in termini temporali: l’eterna ripetizione del fatto) rende tuttavia possibile non solo che potremmo rimanere perennemente in paradiso, ma che di fatto perennemente vi siamo, ed è indifferente che qui lo sappiamo o no”. Questa sentenza di Franz Kafka è presente negli Aforismi di Zürau, pubblicati postumi nel 1946 da Max Brod. Dunque il Gan Eden è un luogo definitivamente perduto o il luogo nel quale abitiamo, oppure è semplicemente là fuori, e fuori dove? Kafka ci ritornerà ancora: “Fummo creati per vivere in paradiso, il paradiso era destinato a servirci. La nostra destinazione è stata cambiata; che questo sia accaduto anche con la destinazione del paradiso non viene detto”. Forse troviamo accomodante e confortevole restare in un luogo, senza pensarne ad un altro migliore, magari abbiamo perso proprio il ricordo di un luogo più ameno. Il Gan Eden è presente in svariate cosmogonie soprattutto del Medio Oriente, ed infatti è collocato nelle narrazioni per lo più in Mesopotamia, tra il Tigri e l’Eufrate, in quell’area oggi martoriata da guerre e fanatismi. Ho ripensato a questi scritti di Kafka leggendo a proposito di quel fenomeno, così discusso sui quotidiani in questi giorni, di coloro i quali dopo due mesi di quarantena chiusi tra le mura domestiche “non sentirebbero più la necessità di uscire di casa”. Un luogo, la casa, in questo caso “riscoperto”, forse non proprio un paradiso, ma comunque più sicuro rispetto all’esterno. Eppure dovremmo trovare la forza di “cadere”, uscire fuori, Lekh Lekhà. O più propriamente viaggiare – per quanto adesso quasi impossibile. Giulio Busi ricorda che il verbo-gesto in ebraico “nasa’”, ovvero “viaggiare”, in origine “denominava l’azione con cui si tolgono i paletti delle tende” […], “il rituale secco del deserto, con il quale si smontava l‘abitazione provvisoria per ripiegarla e trasportala altrove”. Una prassi nomade, “in cui vengono sistematicamente tolti i picchetti dell’appena trascorso, racchiudendo così una metafora di conoscenza”. Dovremmo allora portare con noi la nostra tenda, l’esperienza maturata in questi mesi, per quanto di fronte ci sia un viaggio ignoto, un percorso nel deserto, il quale come scrive Kafka è però inevitabile.
Francesco Moises Bassano
(8 maggio 2020)