La ristrutturazione sociale

Al netto di possibili ritorni pandemici (che ci auguriamo non si verifichino oppure, in diverso caso, che producano i minori danni possibili), in tutta plausibilità ciò che potrebbe invece verificarsi dal momento in cui la centralità dell’emergenza sanitaria andrà attenuandosi, sarà una rincorsa a riconquistare posizioni perdute, e ad assicurarsi quelle abbandonate dagli altri, sul versante economico. Si tratterà, al medesimo tempo, di un riposizionamento geopolitico sul grande scenario internazionale così come di una ristrutturazione all’interno delle singole nazioni rispetto agli specifici comparti produttivi. Che la ripresa post Covid-19 sarà faticosa per tutta l’Europa, e non solo, è oramai chiaro a tutti. Rimane il fatto che alcuni faticheranno molto di più di altri. Il commissario dell’Unione per gli Affari economici Paolo Gentiloni, ha già identificato per l’Italia una perdita del 9,5 per cento del Prodotto interno lordo nel 2020, con una previsione (ottimistica) di rimbalzo positivo del 6,5 per cento per il 2021. Mentre Germania, Croazia, Austria e Slovacchia nel 2021 recupereranno i livelli di output di fine 2019, Italia, Spagna e Paesi Bassi ne resteranno invece nettamente al di sotto. L’Italia è al penultimo posto di tale classifica, una condizione, tra i ventisette membri dell’Unione, ben poco invidiabile. Per intenderci, se per la Polonia è stimato un calo del 4,3, alla Germania del 6,5 e alla Francia è attribuito un 8,2, l’ultima della serie sarà la già massacrata Grecia, con il 9,7 per cento. L’Italia sta di un piccolo gradino al di sopra dei cugini ellenici. C’è però chi ritiene che le previsioni di Gentiloni (simili a quelle del Fondo monetario internazionale) siano fin troppo “positive” poiché, come afferma Carlo Cottarelli, direttore dell’Osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica: «nessuno sa dire con precisione se ci sarà una seconda ondata né quando, quando si potrà ricominciare a lavorare a pieno regime o quanto incideranno le misure di sicurezza sulla produzione». Tre sono le variabili di fondo pesantissime e non facilmente quantificabili: la perdurante incertezza dei mercati come delle società; la cronicizzazione di uno stato generalizzato di sofferenza nelle popolazioni; la tentazione di usare lo stato di cose esistenti per innescare competizioni aggressive tra i Paesi nel mercato internazionali, come anche in quelli interni. Peraltro l’Italia obbligatoriamente sconterà il peso di un lockdown assai più lungo e rigoroso di quello che, ad oggi, è stato adottato in altre società. Plausibile che il peggiore riflesso lo si abbia in tutti quei settori che offrono servizi per il pubblico (turismo, cultura, alberghiero, intrattenimento, commerciale per i beni non di prima necessità e così via) non solo in ragione della morsa stringente dei diversi codici e dei protocolli di sicurezza e di distanziamento sociale imposti dalle circostanze ma anche – e soprattutto – per il ridimensionamento della domanda collettiva, che durerà prevedibilmente a lungo, trasformandosi anche in una sua rimodulazione (con lo spostamento definitivo di una parte delle scelte di acquisto sul web). Sarà quindi il peggiore shock economico e sociale dalla crisi del 1929 che, peraltro, l’Italia a quel tempo riuscì ad affrontare in termini migliori di quanto non fosse avvenuto in molti altri paesi, a partire dalla Germania. L’export, che è il vero orizzonte di molte delle produzioni del circuito delle medie (e grandi) imprese italiane, essendo indirizzate ai cosiddetti prodotti intermedi, che lavorano le materie prime ed offrono lavorati e semilavorati, rischia di essere fatta oggetto di una spietata concorrenza da parte delle imprese straniere, che già da adesso cercano di inglobare le nostre quote di mercato. Se al fornitore italiano si sostituisce uno straniero, difficilmente per le aziende nostrane sarà possibile tornare facilmente in gioco, quand’anche dovessero riaprire senza gli attuali vincoli (non solo quelli legati al lockdown). La filiera ne uscirebbe quindi profondamente trasformata. D’altro canto, così come rilevano molti analisti, il commercio internazionale, al momento, sta subendo una caduta maggiore di quella degli stessi Pil nazionali. Si tratta non solo di un brusco giro di valzer bensì di un radicale cambio di registro, per intenderci. A questo quadro, già di per sé drammatico, si potrebbe ben presto aggiungere non solo un incremento dei poveri (si calcola tre milioni di italiani, che andrebbero ad aggiungersi ai già cinque o sei milioni già esistenti, portando la quota percentuale, sulla popolazione nazionale, al quindici per cento) ma anche un aumento di almeno due punti della disoccupazione strutturale, quella che – in altre parole – dopo essersi manifestata non se ne va più via. Non sarebbe cosa da poco, per intenderci, poiché l’Italia parte già enormemente svantaggiata, al riguardo, avendo un tasso del dieci per cento di esclusi dal mercato del lavoro, pressoché immodificabile. A comporre i nuovi “quadri” della marginalità, sarebbero quasi esclusivamente soggetti del ceto medio declassato, ovvero lavoratori dipendenti (non solo in posizione subordinata dentro l’organigramma aziendale, poiché esiste una specifica sacca, in via di espansione, di management che sta conoscendo un percorso di esclusione) e partite Iva senza committenti. Sarà bene soffermarsi su questi dati, poiché la povertà non è esclusivamente un problema dei “poveri”, richiamando semmai una quantità incredibile di questioni: quali sono le coorti sociali che la compongono; cosa ciò comporta per il resto della società; quali siano le condizioni di inamovibilità, così come di recuperabilità; quanti e quali le ricadute – gli effetti rebound e follow up – sul resto di una comunità nazionale comunque messa alle corde. Poiché questa grande crisi è essenzialmente un colpo al cuore dei ceti medi e, con essi, della democrazia. Senza per questo cadere in facili (e impropri) apocalitticismi. Altro capitolo drammatico sarà quello del debito pubblico: secondo le previsioni del governo dovrebbe assestarsi al 155 per cento (con un deficit annuale del 10 per cento, tre volte più altro di quello previsto fino a gennaio di quest’anno) ma, in tutta probabilità, potrebbe raggiungere anche il 170 per cento. La qual cosa, avrà effetti pesantissimi sulla sostenibilità del debito pubblico italiano e sulla sua rifinanziabilità. Per qualche mese i mercati rimarranno ancora quieti, dinanzi al combinato disposto tra crisi pandemica generalizzata – che coinvolge tutti i mercati . e scudo della Banca centrale europea. Ma l’effetto Draghi, che ha coperto l’Italia (del tutto inconsapevole. ed anche con ingratitudine, da parte di molti italiani, non consapevoli dell’effettiva realtà dei fatti) in questi anni, alla fine della fase più stringente della pandemia, potrebbe ridimensionarsi. Il recentemente pronunciamento della Corte costituzionale tedesca sulla politica debitoria comunitaria, che deroga di tre mesi l’eventuale messa in discussione della copertura del debito europeo (nonché della sospensione del patto di stabilità) e, con esso, di quello italiano, crea molti dubbi al riguardo. Anche perché, come già è stato detto dallo stesso Cottarelli, l’atteggiamento espansivo di Francoforte a medio termine potrebbe portare a una situazione capovolta, con la Banca centrale europea impegnata a fronteggiare un’inflazione più alta, con un taglio della liquidità in circolazione facendo leva su un «quantitative tightening» (letteralmente, un «inasprimento quantitativo»; se la politica monetaria di Draghi ha comportato la creazione di moneta a debito, iniettandola nel sistema finanziario ed economico, con lo scopo di veicolare la fiducia degli operatori e promuovere la liquidità e i prestiti, potrebbe invece subentrare la scelta di contrarre il circolante per governare gli eventuali aumenti di prezzi che, con tutta probabilità, subentreranno dopo la conclusione della fase pandemica). Disegnati, in ipotesi, questi scenari macroeconomici, per evidenziare quale sia lo stato delle cose, basti portare un piccolo esempio nel merito del cambiamento della mutazione attualmente in corso: alla chiusura obbligatoria di parrucchieri ed estetiste si sta sostituendo, in non pochi casi senza adeguate garanzie sanitarie, l’offerta in nero di operatori privati in ambito domestico. Nei fatti si tratta di una disarticolazione di parte di quel segmento del mercato del lavoro e dell’offerta imprenditoriale legale, tassabile, quindi contabilizzata. Nelle grandi crisi si manifesta spesso una spiccata propensione al passaggio dall’economia formale (l’imponibile tassabile) a quella underground, che cerca di sfuggire ad ogni forma di verifica e imposizione. Si tratterà quindi di una dura lotta, per intenderci, nel mentre del prosieguo di un lungo percorso recessivo, e potenzialmente depressivo, che coinvolge comunque già da adesso buona parte dei paesi del pianeta. Non tutti però nel medesimo modo. Il tempo che sta trascorrendo, infatti, lo si può impiegare in due modi: procrastinando scelte (e le loro concrete applicazioni: non basta infatti deciderle ma bisogna volerle applicare concretamente); disegnando una exit strategy che da subito, tuttavia, implica impegni, investimenti, capitalizzazioni, debiti finalizzati e cos’altro. Il fattore velocità, legato proprio al differenziale intercorrente tra l’ipotizzare/ideare qualcosa e – invece – il suo materiale disporre come concreta opzione, è un elemento strategico, ossia decisivo. L’Italia, quella di chi dice di volere decidere a nome della collettività, vive invece in una sorta di area di sospensione permanente. In un profluvio di dichiarazioni pubbliche che rappresentano una vera e propria attuazione del criterio di saturazione: ti dico mille cose, ti disoriento, anche a rischio di crearti aspettative che andranno quasi senz’altro deluse o insoddisfatte (la cosiddetta «infodemia»), in tale modo derogando dall’obbligo di concreti riscontri. Almeno per il lasso di tempo che mi necessita per prendere fiato. Il sommarsi di handicap strutturali e funzionali di ogni genere – sui quali non si sta in alcun modo intervenendo (a partire dall’oramai mitologica figura chiamata «burocrazia») – agli effetti disarticolanti della pandemia, consegna l’Italia ad un declassamento pressoché quasi certo. A fronte di un debito pubblico che sta levitando incontrollatamente (e al momento non potrebbe essere diversamente; ma qui si pagano decenni di deroghe irresponsabili). Non si tratta neanche più di formulare un giudizio politico, tantomeno morale, ma di fotografare un Paese che è oramai aggrappato sempre più spesso a se stesso. Il crescente disagio, che in alcuni casi si fa disperazione, è una spia al riguardo. Come lo è il ricorso alla sanzione amministrativa comminata a quegli esercenti (e ad alcuni loro collaboratori e dipendenti) che nei giorni scorsi manifestavano decorosamente a Milano – con mascherine e rispetto della distanza – per ribadire la richiesta di riaprire le loro attività. La multa non è stata “erogata” in difetto di legge, o di disposizioni legali (in questo caso il divieto di assembramento non autorizzato), e neanche per mera discrezionalità dei singoli operatori delle forze dell’ordine, ma proprio in cieco omaggio ad esse. Laddove, dei due capi, a non funzionare, almeno in una tale situazione, è il dispositivo della norma, non l’esplicitazione della domanda di potere vivere (lavorando). Anche per questo, al di là della specificità delle singole azioni e disposizioni, è il quadro generale a non indurre ad ottimismi. Le strozzature sul credito, se proseguiranno, creeranno una crisi di liquidità enorme, che ricadrà sul circuito produttivo. Da una crisi si può uscire in due modi: cercando di rompere vincoli oramai atavici e, come tali, quasi “identitari”, ai quali corporazioni e gruppi di interesse rimangono affezionati per calcolo proprio, scontrandosi quindi con la loro decisa opposizione; oppure proseguire su una strada di declino, che nella comunicazione pubblica (il cosiddetto «storytelling», l’affabulazione incantatoria) verrà più o meno fantasiosamente presentata come invece qualcosa d’altro. Fino alle singole e ripetute rese dei conti, che non avranno nulla di “rivoluzionario” ma molto di impotente ribellismo. Ognuno potrà morire del suo, eventualmente. Ci si accomodi e ciò già basti.

Claudio Vercelli