“Ora mi chiamo Aisha”

L’emozione della famiglia e di molti italiani. Ma anche le polemiche e gli attacchi, molto spesso beceri, di chi non ha gradito la sua conversione all’Islam. Silvia Romano, che ha detto ora di chiamarsi Aisha, è tornata a casa. Alle spalle la drammatica esperienza di un anno e mezzo prigioniera dei fondamentalisti islamici di Al Shabaab, ricostruito nel confronto che è seguito allo sbarco a Ciampino.
“Ai suoi carcerieri – racconta il Corriere – Silvia Romano aveva chiesto un quaderno. Voleva appuntare ogni dettaglio, annotare date e spostamenti, esprimere sensazioni. È diventato il suo diario. I carcerieri glielo hanno preso prima di liberarla, ma adesso, seduta di fronte al pubblico ministero Sergio Colaiocco e ai carabinieri del Ros, le consente di ricostruire i suoi 18 mesi di prigionia. Lo fa con la voce squillante, il tono sereno, anche se il movimento delle mani tradisce l’emozione e le sofferenze patite”.
Per Al Shabaab la conversione rappresenta una grande vittoria d’immagine. È la riflessione che si fa oggi su Repubblica: “Da assassini crudeli e implacabili quali erano considerati da tutti, salvo forse da qualche sceicco del Golfo, gli Al Shabaab possono apparire adesso come carcerieri compassionevoli, poiché sono perfino riusciti a spingere l’ostaggio ad abbracciare il loro Dio. E tornando – si legge – in Italia a mostrarsi con il hjjab verde, il colore dell’Islam”.
La Stampa racconta la reazione social di chi l’ha subito attaccata per questo. “Persino il più sprovveduto analfabeta funzionale – viene spiegato – ha immediatamente considerato un’occasione più che mai ghiotta per arrivare dritto alla soluzione più scontata. L’idea che si fosse convertita all’Islam cancellava ogni minimo senso di soddisfazione per una cittadina italiana, tornata in patria dopo diciotto mesi di prigionia”.
Pessimo Alessandro Sallusti, che sul Giornale scrive: “È come se un internato in un campo di concentramento tedesco fosse tornato a casa, ricevuto con tutti gli onori dal suo presidente del Consiglio, indossando orgogliosamente la divisa dell’esercito nazista”.

Lotta al Coronavirus. Ancora una volta il modello Israele in evidenza, in un articolo del New York Times tradotto da Repubblica in cui si racconta l’impegno dell’industria militare che sta guidando “uno sforzo ampio e accelerato per scatenare alcune delle tecnologie più avanzate del Paese contro un nemico di altro genere, il Covid-19”. L’articolo si apre con un passaggio a dir poco estremo, in cui si legge che la branca di ricerca e sviluppo del ministero della Difesa israeliano “è famosa soprattutto per la sua capacità di inventare e sperimentare modi all’avanguardia per ammazzare esseri umani e far saltare in aria le cose”.

“Quando leggi a rovescio, e il conto torna, c’è qualcosa di magico, di rivelatorio”. Primo Levi e l’amore per i palindromi: a raccontarlo, in un articolo sulle pagine culturali della Stampa in cui si riporta un verso un po’ audace rimasto finora inedito, è Alberto Cavaglion. “Levi – si ricorda – aveva una grande passione per l’enigmistica: compose sciarade, rebus, logogrifi, anagrammi, palindromi. Chiese e ottenne dalla Sip che il numero telefonico della sua seconda casa fosse anagramma del numero della prima”.
Nelle stesse pagine si parla della riscoperta (via Netflix) dello yiddish. Anche per via della popolarissima serie Unorthodox. Scrive al riguardo Elena Loewenthal: “Produzione e regia di queste quattro puntate in onda su Netflix esultano per un successo al di là delle aspettative, merito anche della lingua. E assicurano che la rinascita dello yiddish sul piccolo schermo non finisce qui, anzi”.

Il celebre direttore d’orchestra israeliano Daniel Oren racconta a La Stampa la sua quarantena. Ad aiutarlo, dice, “la famiglia, stare con i miei figli: prima, era difficile trovare il tempo”. E un pensiero della cultura ebraica: “Ogni sette anni l’uomo deve riposare. Anche la terra deve riposare. E i debiti devono essere condonati”.

Adam Smulevich twitter @asmulevichmoked

(11 maggio 2020)