Epidemia
e atteggiamenti collettivi

L’epidemia che ormai e sempre più condiziona le nostre esistenze ha effetti visibili e contrastanti sulla nostra mentalità, sul nostro comportamento. Da un lato la consapevolezza di una comune difficoltà e la partecipazione emotiva alla sofferenza, al sacrificio, ai lutti incrementano in modo esponenziale la condivisione, la solidarietà collettiva, l’attivismo sociale, l’impulso a impegnarsi quanto mai prima nel volontariato anche a distanza attraverso l’impiego dei social. Anzi, proprio nel periodo di isolamento che ora si avvia auspicabilmente alla sua conclusione abbiamo sperimentato nei fatti il paradosso di sentirsi collegialmente tanto più vicini quanto più si è lontani. Questa è una realtà positiva e incoraggiante che si sta svolgendo sotto i nostri occhi, della quale anche le comunità e le istituzioni ebraiche sono significative protagoniste. La ritrovata aggregazione sociale che ne è emersa è destinata a essere forse l’unico frutto buono e duraturo prodotto dalla pandemia.
In un’altra prospettiva, però, assistiamo a una progressiva mutazione degli atteggiamenti, dei canoni comportamentali e tendenzialmente dei valori etici. Molto spesso negli ultimi mesi ci è capitato di udire o di leggere accuse altisonanti lanciate in termini ultimativi nei confronti di chi ha osato – nientemeno! – uscire di casa senza mascherina o avvicinarsi troppo ad altre persone in coda davanti al supermercato o sconfinare oltre i cento metri per la sua passeggiata intorno a casa o avvicinarsi incautamente ad altri passanti contribuendo a rischiosi assembramenti. E i termini per qualificare questi comportamenti dovuti per lo più a incuria e ingenuità non vanno tanto per il sottile: “irresponsabile”, “vergognoso”, “inconcepibile” sono forse quelli più gentili. La connotazione dell’accusa tende sempre più a farsi propriamente morale, quasi che si trattasse di atteggiamenti scientemente criminali. Una piccola riflessione dovrebbe essere sufficiente a capire che l’infrazione alle norme protettive è grave sintomo di superficialità e apportatrice di inutile rischio, ma non rappresenta di per sé un danno certo portato volontariamente alla collettività. Eppure, la mentalità ormai comune colpisce queste mancanze come il più grave dei reati. Perché? E perché questa alterazione del sentire collettivo è avvenuta in così poco tempo? Il fatto è che il virus che da qualche mese ha colpito il mondo rappresenta il male in sé, un’oscura invisibile pervasiva presenza che incute in tutti noi terrore cieco e pulsioni irrazionali. Terrore e pulsioni che immancabilmente siamo pronti a rilanciare con violenza contro i malcapitati e gli sprovveduti di turno, “colpevoli” di mancanze subito additate al pubblico ludibrio quali sintomo di palese inciviltà, se non addirittura di effettiva malvagità.
Tutto ciò appare eccessivo, come spropositato sembra il giudizio di carattere etico formulato in questi casi dall’opinione pubblica come una sentenza e prontamente dilatato dai mass media. Ma da una società come quella italiana, che in queste fasi grave pericolo si mostra più che mai ripiegata su se stessa – fino al punto di abbandonare alla loro sorte i seicentomila immigrati indispensabili per il nostro fabbisogno quotidiano e tuttora in attesa di regolarizzazione – non c’è da aspettarsi molto di più. Una società di ingiusti benpensanti, come sembrano indicarci alcuni suoi atteggiamenti.
È comunque istruttivo osservare con attenzione antropologica la trasformazione di valori e disvalori attualmente in corso. È importante prenderne coscienza, cercando di mantenere per quanto è possibile autonomia e razionalità di giudizio.
David Sorani

(12 maggio 2020)