Gli animi perversi
Cercherò di essere onesto come non mai, anche a costo di farmi censurare e criticare. Le vicende di Silvia Romano, del prima e del dopo, non sono le notizie che più impegnino la mia attenzione in questi giorni. C’è anche altro al mondo, sofferenze, disperazione, morti strazianti e lutti laceranti e irrecuperabili. Silvia Romano ha fatto le sue scelte. Le ha pagate. Forse le abbiamo pagate, e le stiamo pagando, un po’ anche noi. Ma, di fronte a una vita salvata, nessuna polemica e nessun astio possono trovare spazio ed essere giustificati. Simpatica o antipatica che lei ci stia. Giusta o sbagliata che ci appaia la sua scelta e il modo in cui la spiega e la giustifica.
Insopportabile allora risulta la salva di insulti e di condanne e di censure e di offese che le è stata scaricata addosso. Ricorda il caso non troppo lontano di Greta Thunberg. Non ci si occupa della persona, la si prende come pretesto per dare libero sfogo alle proprie convinzioni personali e, non di rado, alle proprie frustrazioni.
Ci si chiede se Silvia Romano abbia fatto una buona scelta andando volontaria in Kenya, se abbia sofferto o se la sia spassata durante il suo sequestro, se la sua conversione sia stata volontaria od obbligata, se la scelta dell’Islam sia una cosa buona per una cattolica, se l’abito con cui si è presentata sia stata o meno una provocazione per la nostra libera civiltà occidentale e una vittoria per gli islamisti, se il riscatto sia stata una scelta giusta, visto che tanti italiani soffrono la fame. E ciascuno di noi ha una risposta per queste e per ogni altra domanda che ci sfreccia per la mente. Tutti hanno un giudizio pronto, una condanna a portata di mano, una risposta figliata dall’istinto bruto più che dalla conoscenza e dalla riflessione.
Le domande, si badi bene, sono tutte lecite, qualcuna forse un po’ oscena, ma quasi tutte possibili e giustificate. Sono le risposte che non sono accettabili, perché motivate da odio, antipatia, arroganza, senso di superiorità. A guidarci è il sentimento, e spesso, purtroppo, il più bieco. Un sentimento che è prigioniero, a sua volta sequestrato, dall’ideologia e dal pregiudizio.
Ripeto, onde evitare fraintendimenti: si possono anche non condividere le scelte di Silvia Romano, così come i suoi enunciati e le sue giustificazioni. Ma questa è un’altra questione. Inaccettabile è la strumentalizzazione che ne viene fatta dalla gente, non ultimi i mezzi di comunicazione, ossia da tutti coloro che non sono ingenui produttori di significato, e che si ritengono invece pensatori grandi e piccoli, pubblici e privati, costruttori dell’opinione pubblica, a mezzo stampa o attraverso la superficialità stupida e criminale dei social.
Chi ha studiato l’ebraismo, o chi vi si sia avvicinato in vario modo e a vario titolo, sa che uno dei principi cardine della sua etica, bellissimo e imprescindibile, è ‘Al taddin eth chaverechà ‘ad shetaghia’ limkomò’, ossia, ‘non giudicare il tuo prossimo finché tu non ti sia trovato al suo posto’. Come fa allora il filosofo, ad esempio, ad affermare che Silvia si è convertita perché ha trovato finalmente la sua verità? O come fa il leone da tastiera, antagonista di professione, ad affermare che ella si sia convertita per libera scelta e quindi sarebbe potuta rimanersene dove si trovava? Chi ha gli elementi per il giudizio? E chi il diritto di emettere sentenze?
Ci si potrebbe chiedere che cosa significhi conversione, che valore abbia, quando la si possa considerare libera e disinteressata e quando costretta e obbligata. L’ebraismo se lo chiede ogni giorno, con un dibattito che non ha mai fine, e che non lascia mai alcuna coscienza integra e indenne. Perché l’ebraismo non è un punto di arrivo, ma un percorso, un obiettivo da perseguire ogni giorno, anche mettendosi nei panni dell’altro.
Non ci si può non chiedere che cosa sia mai accaduto a questa nostra epoca, che cosa stia spingendo la nostra degradata civiltà a giudizi tanto corrivi, a condanne tanto avventate e per nulla meditate. Vengono emesse sentenze senza aver raccolto le informazioni necessarie, affidabili e certe. L’importante è dar voce a una convinzione o a un momentaneo furore e rappresentare il partito cui si è idealmente aderito. Come se non fosse necessario tanto studiare, analizzare e capire quanto scendere ogni volta in guerra contro qualcuno, il primo che capita, e poi sparare le proprie certezze e abbattere il nemico.
Ho letto poche righe oggi, scritte dallo psicanalista Gianni Guasto, che meritano di essere lette, prendendosi tutto il tempo necessario per meditarle e risparmiarsi così di scrivere soltanto malvagie superficialità:
“Tutti noi, di fronte all’angoscia, alla paura, al pericolo estremo […] abbiamo bisogno di pensare che c’è una via di fuga. Se questa non c’è, tutto ciò che ci resta è assistere, da vivi, all’omicidio della nostra stessa esistenza. Tale fu il destino degli internati nei campi di sterminio nazisti, enormi macchine del terrore che furono uno dei più spaventosi esperimenti di psicologia sperimentale mai realizzati nella storia, consistenti nel togliere la vita senza spegnerla. In tal modo il ‘salvato’, il sopravvissuto, se non sarà ‘sommerso’ (sto citando Primo Levi), vivrà per sempre con il proprio ‘io assassinato’, come ebbe a scrivere, di se stesso, Samuel Beckett.” Continua Guasto: “E mi torna alla mente quello che mi insegnò una mia paziente, alla quale devo moltissimo di ciò che so e penso oggi, quando mi ricordò che la mia pretesa di fare la guerra ai persecutori che ormai vivevano dentro di lei era soltanto l’ingenua velleità di un ‘paladino’, di un sangiorgio destinato non soltanto a perdere nella lotta contro il drago, ma persino a trafiggere, per tragico errore, la vergine.”
Non sono un ottimista, non mi sono mai considerato un buono di professione. Ma di fronte alla perversità dell’animo anche una persona normalmente umana si ribella.
Dario Calimani, Università di Venezia
(12 maggio 2020)