Critica al sistema
e via per ripartire
Hannah Arendt, critica al sistema e via per ripartire
La Germania si dimostra ancora una volta locomotiva d’Europa e dà prova di grande coraggio intellettuale e vitalità sociale ripartendo con una iniziativa non virtuale all’insegna della cultura (della storia e della filosofia del Novecento, in particolare) dopo i mesi pesanti, opachi, non ancora conclusi del Coronavirus. La mostra dedicata dal Deutsches Historisches Museum alla figura e al ruolo di Hannah Arendt (Hannah Arendt e il XX secolo) suona come un invito a progettare il futuro dando spazio alla visione della grande pensatrice ebrea tedesca. Pagine Ebraiche di maggio si sofferma con attenzione sull’evento, inaugurato significativamente nel 75° della resa incondizionata della Germania nazista e organizzato nelle sale del museo secondo i più adeguati protocolli di distanziamento e di igiene anti-Covid 19. Mettere al centro dell’analisi una filosofa ebrea fuggita dal nazismo e divenuta americana per necessità e per scelta, farlo nel ricordo pesante della débacle tedesca è il modo migliore per confermare la nuova Germania del riscatto e della memoria, ma anche quella dello sviluppo e della cooperazione europea.
Al di là dei contenuti specifici della mostra, può essere utile ripercorrere sinteticamente alcuni aspetti del pensiero arendtiano per ritrovarne la straordinaria attualità, anche in chiave post-pandemica. Provo a farlo in questo intervento e in quello della prossima settimana.
Cosa appare più centrale, oggi, nella vasta e molteplice riflessione di Hannah?
Non a caso l’esposizione berlinese inquadra la sua figura nel contesto globale del suo secolo; infatti è il continuo confronto col Novecento e con le sue tendenze (anche con le sue produzioni più mostruose) a caratterizzarne l’opera di storica, sociologa, politologa e filosofa, per quanto ben chiare le appaiano le radici classiche e moderne della contemporaneità. Tre a mio avviso sono i capisaldi del suo percorso nel XX secolo: Le origini del totalitarismo, La banalità del male e Vita activa. Si tratta di un itinerario apparentemente diversificato ma in realtà unitario, volto ad analizzare con attenzione fenomenologica e con acume socio-politico i meccanismi che conducono l’Europa dallo Stato nazione al sistema totalitario e che generano come proprio prodotto specifico il male quale quotidianità burocratica; lo stesso sentiero euristico conduce però Arendt a ricercare le modalità del riscatto individuale, sociale, politico nella definizione di un nuovo/antico modello di esistenza comune ispirato alla visione classica e capace di sviluppare l’impulso creativo dell’uomo declinandolo nel segno della civiltà.
Le tappe che conducono all’affermazione dello Stato totalitario, un mostro che si autoalimenta divorando i suoi sudditi, sono varie e complesse. La filosofa le affronta nelle tre parti del suo capolavoro (che nell’edizione inglese si intitolava Il fardello del nostro tempo), maturato non a caso negli anni del secondo conflitto mondiale e pubblicato nel 1951: “L’antisemitismo”, “L’imperialismo”, “Il totalitarismo”. Dalle radici antisemite vecchie di secoli e maturate in seno alla civiltà ottocentesca (illuminante la caratterizzazione del mondo ebraico come una società insieme di “paria e parvenu”, comunque progressivamente esclusi dal tessuto sociale dominante) si sviluppano i semi dell’autoritarismo e dell’espansionismo nazionalistico-imperialistico, recante in sé la contraddizione di presentarsi come sistema statale comune dei componenti della “nazione” ma di escludere al contempo dal suo interno alcuni di essi (gli ebrei, per l’appunto; ma anche le altre minoranze “diverse”). Con la crisi successiva alla prima guerra mondiale e l’appiattimento delle classi sociali in massa indistinta (la “società di massa”), questi germi di esclusivismo e di forte centralismo verticistico raggiungono il loro definitivo sviluppo novecentesco nel sistema totalitario, che al di là del leader carismatico di cui ha primaria necessità si realizza nell’evoluzione/involuzione di un partito capace di trasformarsi in stato escludendo l’esistenza di tutti gli altri e distruggendo ogni dialettica politica e nella creazione di una struttura di potere piramidale fondata sul meccanismo del terrore, descritto da Hannah Arendt con agghiacciante realismo. Una capacità analitica quasi “fotografica” quella della pensatrice, che riesce a cogliere gli efficienti ingranaggi del modello di dominio pervasivo/distruttivo del nazismo e dello stalinismo. Espressione tipica del potere totalitario, il Lager ne è insieme – nella descrizione funzionale e sistematica de Le origini del totalitarismo – il prodotto perfetto, la stravolta eppur logica conseguenza, lo strumento principe e la meta sistematica.
Andando oltre l’aspetto politologico, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1963) affronta la dimensione psicologica individuale del dominio totalitario e dell’abiezione del potere. Nato come raccolta dei reportages sul processo Eichmann scritti per la rivista “The NewYorker”, questo saggio è ben di più di una dimostrazione della efficacia di Hannah Arendt quale “giornalista sul campo”. Le sue pagine rivelano – nella ricostruzione della biografia, della formazione, del carattere del criminale nazista come nell’analisi delle varie fasi del dibattimento processuale – una penetrante modernità di approccio. Il protagonista Eichmann ne esce come un personaggio-non personaggio, come un modesto grigio impiegato del crimine politico, quasi non in grado nella sua piatta normalità di pensare autonomamente e di elaborare in proprio progetti di annientamento di massa, nell’ambito dei quali pure occupava una posizione di rilievo quale punto di riferimento per la rete dei trasporti verso i campi della morte. Non per questo però meno colpevole, anzi corresponsabile in pieno del genocidio e perciò meritevole secondo Arendt della pena capitale. Eichmann rappresenta insomma l’espressione soggettiva ed esemplare della “banalità”, del carattere cioè amministrativo-burocratico-industriale del male nel XX secolo. La evidente riduzione di calibro nella valutazione del protagonista del processo cardine della storia di Israele (evento capace di dare una svolta all’intera percezione israeliana della Shoah) provocò come noto feroci inestinguibili polemiche tra Hannah e alcuni altri grandi protagonisti della cultura ebraica tedesca del Novecento (in particolare, la rottura con l’amico Gershom Scholem, immigrato in Israele nel 1923). In realtà, ben lungi dallo sminuire la gravità di giudizio, l’interpretazione della Arendt apriva una nuova strada caratterizzante al discorso etico-politico sul Novecento; una strada volta a cogliere nello sviluppo del secolo il senso di standardizzazione meccanica e industriale, un indirizzo che in modo personale e differenziato seguiranno altri grandi autori, quali tra gli altri il sociologo Zygmunt Bauman in Modernità e Olocausto.
Hannah Arendt non si arresta però all’orrore della distruzione totale. La settimana prossima vedremo come analizzando La condizione umana (The Human Condition è il titolo originale di “Vita activa”) pone lavoro ed libero operare dell’individuo al centro di una rinnovata libertà comune di azione.
David Sorani
(19 maggio 2020)