“I tanti volti di una grande comunità”

Ultimo di quindici figli, cresciuto nella città di Bnei Brak, nella chassidut di Satmar (uno dei più grandi movimenti chassidici), passato a studiare in una yeshiva Litai (scuola religiosa haredi lituana) dove si parlava solo yiddish, Akiva Weisz racconta di aver sempre avuto un certo feeling con le notizie. “Già da ragazzino mi piaceva informarmi, mi piaceva seguire le notizie. Diciamo che il mio interesse si è sviluppato presto. E poi le cose hanno preso una certa piega, e mi hanno buttato fuori dalla yeshiva”. Da qui, l’inizio della sua carriera giornalistica che ha portato Weisz a diventare il redattore di riferimento per il mondo haredi dell’emittente televisiva israeliana Kan. “Sento la responsabilità di spiegare al mondo laico questo mondo, di far comprendere le sue mille sfumature. Bnei Brak (città a maggioranza haredi) e Tel Aviv distano una manciata di chilometri, ma dal punto di vista culturale sembrano migliaia”. Lo dimostrano decenni di incomprensioni reciproche, e in ultimo quanto accaduto con il coronavirus. “Il mondo hiloni (laico) sapeva dell’epidemia del Covid-19 da gennaio. Sapeva della Cina e di tutto il resto. Il bombardamento di notizie era costante, alert sui nostri smartphone sul rischio del virus. Ma il mondo haredi è rimasto tagliato a lungo fuori: senza andare lontano, nella mia famiglia, i computer, la televisione, la radio non vengono usati. Alcuni non leggono nemmeno i giornali. Come si può pensare che, senza una mediazione, arrivi il messaggio sulla pandemia? Ci sono le responsabilità dei rabbini, ci sono le responsabilità delle istituzioni”. Akiva spiega di essere stato tra i primi a denunciare il comportamento tenuto a Mea Shearim da alcuni gruppi haredi, che hanno continuato a riunirsi in preghiera nonostante i divieti. “Se c’è da presentare una situazione critica nel mondo haredi, lo faccio. Ma se un movimento specifico e minoritario haredi, diciamo a Gerusalemme, si comporta in un determinato modo allora subito parte la generalizzazione: tutti i haredim. Ma perché? Quando ci sono state manifestazione a Tel Aviv, con violazione dei divieti, non abbiamo sentito la retorica dei ‘hiloni che sbagliano’”. Rispetto alla pandemia, il giornalista di Kan spiega di aver avuto a sua volta difficoltà. “Sono stato criticato a Bnei Brak e a Mea Shearim per aver fatto vedere come inizialmente le misure fossero state ignorate. Mi dicevano, ‘fai Chillul haShem’ (profanazione del nome di D-o), ma io ho risposto: signori, si tratta di Pikuach Nefesh, salvaguardare la vita umana, gli assembramenti in sinagoga sono pericolosi”. Poi sono arrivate le indicazioni dei rabbini e le cose sono cambiate. “E io sono tornato per mostrare che si rispettavano le regole”. Ci si chiede se la crisi sociosanitaria, che ha colpito in particolar modo il mondo haredi proprio a causa dei ritardi nel prendere le misure adeguate, possa far emergere delle critiche interne. “Forse. Ma un uomo di fede non inizierà a mettere in crisi il proprio sistema di valori per questo. Se migliaia di persone andavano da rav Chaim Kanievsky (rabbino di 92 anni, tra le autorità più importanti del mondo haredi) a chiedergli consiglio per comprare una macchina, per sposarsi, per fare una operazione, non smetteranno di colpo di avere fiducia in lui. E ricordati che noi crediamo che è la Torah a salvarci”.
Akiva spiega di vedere il suo ruolo di giornalista quasi come una missione: “Voglio far capire alla società laica chi sono i diversi rabbini haredi, le diverse correnti, cosa significa una decisione presa da uno di loro”. Messo alla porta della sua yeshiva, ha scelto la gavetta giornalistica. Ha iniziato cucendo notizie per Kav Nays, un servizio telefonico che fa da fonte di informazioni per il mondo haredi, dove radio e televisioni sono poco diffuse. Queste linee vengono aggiornate di frequente e comprendono brevi notizie, ritrasmissioni da altri media, interviste a personaggi pubblici e commentatori. Poi è passato ai giornali haredi (ne esistono per ogni movimento: da Yad Ne’eman per il pubblico “Litai”, a Yom LeYom del partito Shas o ancora Kfar Chabad). La gavetta di Akiva si è conclusa, per il momento, con l’assunzione due anni fa a Kan. “Qui il mio capo mi ha detto: Akiva voglio che racconti anche l’umanità, il quotidiano, dai un volto alle storie e alle persone. Ed è un approccio che ho fatto mio, come dicevo, senza risparmiare critiche. A volte mi sento dire a Bnei Brak: ‘Ma perché ti abbiamo mandato fuori allora?’. Ma nessuno mi ha mandato da nessuna parte. Io non rispondo che alla mia etica professionale”.

Daniel Reichel, Dossier Informazione, Pagine Ebraiche Maggio 2020