Periscopio – Nuovo governo
Credo di interpretate un sentimento alquanto diffuso nel dire che il nuovo governo israeliano sia il meno amato nella storia del Paese. Non piace proprio a nessuno, né a destra né a sinistra, né ai laici né ai religiosi, né ai falchi né alle colombe.
Credo che anche tra i moltissimi delusi e insoddisfatti, però, ci sia una cospicua percentuale di persone – e io tra questi – che trova comunque un motivo di consolazione nel semplice fatto che un governo, uno qualsiasi, sia alla fine stato trovato, e che sia stato scongiurato – almeno per ora – l’incubo di una quarta elezione. Si tratta di un accordo che nasce sulla base di un sentimento di assoluta sfiducia reciproca tra i contraenti, e sulla cui tenuta nessuno scommetterebbe un soldo bucato. Nessuno crede che tra 18 mesi ci sarà veramente il “turn over”, e ognuno dei partner si chiede quali siano le mosse che i suoi avversari stanno tramando a proprio danno, ovviamente di nascosto. E, poi, com’è noto, c’è la grave incognita del processo incombente sul premier. Dicono i sondaggi che anche la maggioranza dei sostenitori di Netanyahu non sia affatto convinta della sua innocenza, ma ritiene la cosa in ogni caso secondaria rispetto alle esigenze prioritarie della politica. Ciò, dal mio punto di vista, è qualcosa di triste, che esprime un sostanziale offuscamento dei millenari valori di giustizia che hanno sempre rappresentato la principale forza di Israele, quello antico e quello moderno. Sia chiaro, Netanyahu è il premier legittimamente eletto, gode della presunzione d’innocenza e merita pieno rispetto. Ma nessuno, nessuno deve essere al di sopra della legge, e in una democrazia non possono esistere uomini insostituibili. Nel Seder di Pesach, che rievoca la liberazione dall’Egitto, com’è noto, il nome di Mosè non viene mai pronunciato, e i saggi spiegano che è così perché nessuno, neanche Mosè, deve essere idolatrato. Questa è (o dovrebbe essere?) Israele.
Certo, il governo gode di una maggioranza particolarmente solida, ben voti 76 a favore contro 46 contrari, e non c’è premier che non invidierebbe una tale condizione di apparente forza. In teoria, molti deputati della maggioranza potrebbero andarsene a spesso, disertando le votazioni della Knesset, in quanto il rischio di “imboscate” parlamentari, con trenta voti di scarto, dovrebbe essere scongiurato. Ma la forza, appunto, è solo apparente, tutti sanno che il collante che tiene uniti gli attuali voti favorevoli è quanto mai esile. Netanyahu – che, indubbiamente, può legittimamente festeggiare, come principale vincitore -, con la sua grande esperienza e il suo evidente fiuto, sa bene che molti, tra i suoi alleati di oggi, stanno già pensando agli scenari di domani. Certo, può compiacersi del fatto che, al momento attuale, non c’è nessuna forza politica alternativa in grado di dargli davvero filo da torcere. Anzi, sembra funzionare una sorte di sortilegio, in forza del quale ogni alleanza costruita contro di lui è destinata a sciogliersi come neve al sole. Ma anche lui sbaglierebbe a confidare troppo su questo fattore: in politica, e soprattutto nella politica israeliana, le cose possono cambiare molto rapidamente.
Immagino la rabbia di quegli elettori (di sinistra, di centro e anche di destra) che avevano votato Gantz, confidando nella sua promessa “mai con Bibi”, così come la delusione di chi, pur avendo votato Likud, vede un governo multicolore molto diverso da quello che aveva vagheggiato, o il senso di tradimento dei sostenitori di quelle forze di destra, tradizionali alleate di Bibi, che sono state scaricate per fare posto ai nuovi partner. Lo stesso numero esorbitante di ministri (ben 36) mi pare un evidente segno di debolezza, il segno di un desiderio di accontentare più gente possibile, di puntellare artificialmente qualcosa di instabile e pericolante.
Ma, nonostante tutto, come ho detto, la nascita di questo ircocervo multicolore, di questo ibrido pachiderma, dalle tante teste e tante anime, va comunque salutata con favore, perché un governo, nel pieno delle sue funzioni, ci voleva. Ma è un governo figlio non, come dovrebbe essere, della politica, ma, al contrario, della morte della politica, e del puro stato di necessità. Uno stato di necessità determinato non tanto dalla crisi del Corona, quanto da una patologica incapacità della dinamica democratica di sfociare in un fisiologico confronto tra maggioranza e opposizione. Alla base di tale incapacità, ci sono diversi fattori, tra cui, non ultimo, la difficoltà – a torto o a ragione – di fare entrare nel normale gioco i rappresentanti delle minoranze arabe, ciò che restringe l’area delle maggioranze possibili.
Auguri sinceri, dunque, al nuovo governo, che dovrà affrontare molte complesse questioni. E un saluto particolare alla giovane neo-ministra Pnina Tamano-Shata, esponente di una comunità, quale quella etiope, il cui percorso di piena integrazione nella società israeliana non può dirsi ancora pienamente compiuto (non sono pochi, ancora oggi, coloro che insistono a indicare questi esponenti con l’appellativo spregiativo di falascià). Un piccolo, importante segnale positivo in un quadro complessivo certamente non esaltante.
Francesco Lucrezi, storico