Il lungo dopoguerra

I conti si faranno alla fine. Di certo, però, possiamo dirci da subito una cosa, ossia che la grande crisi che il Covid-19 ha innescato, produrrà nei fatti senz’altro una serie di risultati collettivi, pressoché planetari, accelerando tuttavia processi invece già in corso da molto tempo: ovvero, un mutamento radicale del lavoro (modi, tempi, qualità, logiche ma anche sua distribuzione, riconoscimento e remunerazione); nuovi assetti geopolitici e conseguenti aree di influenza a venire; con essi, scale di reddito, classi sociali beneficiarie e soggetti, invece, tributari e assoggettati; inoltre, innovazioni e regressioni nei sistemi politici – con un prevedibile ridimensionamento delle democrazie rappresentative – e nei circuiti di rappresentanza. Chi più ne ha, ne metta. Per alcuni aspetti, ancora tutti da indagare, la lunga transizione che stiamo vivendo è paragonabile a quei mutamenti che hanno velocemente attraversato l’Est europeo, dal declino dell’Urss alla Russia putiniana. Basta studiarsi quell’arco di tempo che va dal 1991 al 2001 per capire di che cosa si stia parlando. Non ci sarà nessuna “rivoluzione”, se con una tale parola si intende l’intervento attivo e consapevole di masse storiche (le quali, in genere, hanno quasi sempre subito i mutamenti; semmai, con il senno del poi, sono state chiamate a dichiararsi compartecipi) bensì una somma di complessi sconvolgimenti, alla conclusione dei quali gli assetti prevalenti delle società risulteranno mutati. Il Coronavirus accelera quindi il passaggio dalle vecchie società industriali, che hanno modellato il XX secolo, ad un nuovo, precario equilibrio dettato dalla natura medesima di un’economia della conoscenza e dell’informazione, che riposa sulla trasformazione permanente. Sia inteso: se si parla di economia ci si riferisce ad una sfera delle relazioni sociali che ha, oramai, invaso ogni anfratto della vita sociale e civile. Per cortesia, tralasciamo gli aneliti, gli spasimi, e le suggestioni sul «declino dell’Occidente» (in tali termini ragionavano già gli esponenti, detronizzati dalle sopravvenute rivoluzioni costituzionali e sociali, del XIX secolo, non rendendosi conto che così facendo si consegnavano definitivamente al loro anacronismo; i più scaltri, invece, transitavano dalla noblesse ancienne e dalla noblesse de robe, quelle della fissità status ereditario, alla posizione di borghesia acquisitiva e patrimonialista). La storia non è mai solo ed esclusivamente catastrofe: semmai, incorpora in sé le personali “catastrofi” di chi, vuoi per insipienza, vuoi soprattutto per sopravvenuta marginalità (sulla quale non può in alcun modo incidere con la sua sola forza), registra anche la sua sopravveniente inessenzialità. Alla fine della Seconda guerra mondiale, avvenne qualcosa del genere e durò per almeno un decennio, se non oltre. Siamo ancora al di qua della vera soglia del mutamento, varcata la quale, invece, si entrerà consapevolmente in un “nuovo mondo”, che sarà tale non per maggiore o minore giustizia sociale bensì per intervenuta consapevolezza collettiva. Al momento, viviamo e vivremo ancora per il tempo a venire, in una sorta di area di sospensione. Anche per questo ci diciamo – tuttavia senza troppa convinzione – che “nulla sarà più come prima” (sperando, invece, che tutto possa continuare come se, in fondo, il più non dovesse cambiare in alcuno modo, non almeno nella nostra esistenza). Al senso di spaesamento che una parte consistente, e crescente, dei nostri contemporanei sta vivendo, si è posto occasionale riparo oscillando tra atteggiamenti no-global, sospesi tra rancori sovranisti e furori identitari (la matrice dei quali, ancorché vissuta come antitetica, è invece identica nei suoi effetti: che sia vissuta da “destra”, parlando allora di suprematismo e nativismo, come da “sinistra”, rivendicando il diritto alla differenza come forma assoluta di comunità a sé stante: in entrambi i casi, si frantumano i rapporti di cittadinanza, rivendicando una sorta di primazia di gruppo sulla stessa, a prescindere dalla ricerca di mediazioni e interconnessioni). Il modello politico, economico e sociale della globalizzazione è dagli anni Settanta del secolo trascorso che domina la scena. Per alcuni popoli, che a noi invece piace continuare a pensare come “militanti”, ossia capaci di vivere con poco o quasi nulla, invidiandone una modestia di orizzonti che fingevamo di scambiare per ascetismo, è stata la grande occasione per superare la miseria. I dati dell’United Nations Development Programme, se si studia la sequenza degli ultimi trent’anni, sono incontrovertibili: a fronte di un corposo incremento delle diseguaglianze interne alle società postindustriali (che nel caso dei paesi a sviluppo avanzato, come l’Italia, segnano il declino di una parte del ceto medio), in altre nazioni hanno comportato l’emersione dalla miseria di circa due miliardi di individui, accompagnando ad essa anche un’estensione della sfera dei diritti naturali ed elementari. Ripetiamo: l’evoluzione storica – che si può tranquillamente misurare a breve in una generazione, ossia venticinque anni, come parametro di riferimento – non ha mai un segno univoco. La diffusione della digitalizzazione e delle tecnologie ha comportato, per certuni, una svolta emancipatoria mentre, per altri, comporta il crescente vassallaggio: lo «smart working» ad esempio, ruota intorno a queste due opposte polarità. Vedremo cosa ne sarà di noi e, soprattutto, dei nostri figli e nipoti. Nella sua opera su «Il mondo nuovo», lo scrittore inglese Aldous Huxley identificava la nuova, dolce schiavitù dell’umanità nel dominio delle cose più gratificanti, a partire dall’intrattenimento come condizione inesauribile dello spirito, inteso come pervicace ma anche inconsapevole strumento di controllo sociale più efficiente e capillare della coercizione. George Orwell, invece, immaginava una nuova umanità dominata dal comune vincolo della paura. Nell’uno come nell’altro caso, si precorrevano tendenze ibride ma per nulla estranee al tempo che stiamo vivendo: la sorveglianza individuale delle piattaforme telematiche private (dove un numero crescente di individui letteralmente “scaglia” ciò che resta della sua livorosa individualità); quella pubblica dei regimi autoritari, da certuni enfatizzati come maggiormente efficaci ed efficienti di contro alla farraginosità di quelli democratici, che presuppongono la “fastidiosa” intermediazione; le condizioni di persistente emergenza, attraverso le quali si anestetizzano una parte delle funzioni degli Stati democratici. Una miscela tra ludicità (gioco), individualismo, domesticità, intorpidimento e mediocrità diffusa. Si tratta di una logica alternativa alla globalizzazione? Plausibilmente no, incentivando semmai quel calco dell’homo consumens che si rispecchia in ognuno di noi. Evitiamo tuttavia di arrivare da subito a trarne indebiti giudizi di merito, così come facili conclusioni. Se si fa storia, si ragiona sempre sui lunghi periodi. Cosa che tanti affermano di volere fare quando, invece, si trincerano sul loro presente, molto spesso poco reale ma senz’altro assai immaginario.

Claudio Vercelli