Pesach è anche
un fatto quotidiano

Daniele Luttazzi (il Fatto Quotidiano, 20 maggio 2020, p. 12) si domanda: “Sono il solo a vedere la contraddizione tragica fra la Pesach, che celebra la liberazione degli ebrei dalla schiavitù d’Egitto, e la schiavitù in cui l’Israele di Netanyahu tiene il popolo palestinese?”.
Fa bene a domandarselo, perché essere il solo genio al mondo può portare a montarsi legittimamente la testa ma, al contempo, a rafforzare un eventuale sentimento di solitudine. Però Luttazzi non è solo, quanto meno in questo caso, perché Hanan Schlesinger l’ha scritto in “Passover and Palestinians” sul sito Rabbis without borders il 15 aprile 2019. E poi tanti altri. Forse l’unico sono io, invece, a notare non l’analogia bensì la differenza, perché gli ebrei non chiesero al Faraone di vivere liberi in Egitto, ma di andarsene in Israele.
Quindi, se il buon Luttazzi volesse essere irriverente per davvero, che costituisce poi la sua vera qualità, basterebbe essere più precisi, facendo dire ad Abu Maazen, come Mosé ma, soprattutto, come Charlton Heston: “Let my people go” (“Fai partire il mio popolo”), il che implica che si sentano estranei al territorio che li ospita. In questo caso, le regole del suo mestiere verrebbero rispettate, e forse dovremmo fare a cambio, con reciproco vantaggio.
Ho sempre immaginato il Faraone che raggiunge gli ebrei sul ciglio del Mar Rosso e dice loro: “sono mortificato della vostra partenza e mi scuso se vi siete trovati male da noi ma, che volete? il servizio purtroppo non è più quello di una volta”, mentre Mosé non lo degna di una risposta e gli chiude le acque in faccia. Per rafforzarne l’effetto, Luttazzi potrebbe far proporre al Faraone di dar loro il 93% della Cisgiordania più Gaza, senza che costoro accettino, perché vogliono dell’altro. Ma questa non fa ridere.

Emanuele Calò, giurista

(26 maggio 2020)