Ricostruire l’uomo
e la politica
Proseguiamo l’itinerario arendtiano iniziato la settimana scorsa, viatico prezioso in questi tempi di difficile ripartenza. Prendendo in esame la condizione umana, Hannah Arendt affrontava di petto nell’omonimo saggio del 1958 il problema dei problemi: l’analisi della situazione sociale che a partire dall’età moderna aveva condotto l’umanità a una progressiva alienazione dai suoi più autentici valori portandola alle mostruosità del XX secolo; e contemporaneamente la costruzione di un modello di sviluppo alternativo, capace di riconsegnare nelle mani dell’uomo la possibilità concreta di una piena realizzazione delle sue potenzialità sociali, civili, politiche. Se da un lato, cioè, la pensatrice apriva a una dimensione culturale-sociologica l’analisi più squisitamente politica de “Le origini del totalitarismo”, dall’altro si proponeva di fondare le prospettive per un percorso di superamento collettivo, dal basso, dei sistemi verticistici culminati nei totalitarismi.
La definizione chiave di questo itinerario di rigenerazione è “Vita activa”, il titolo scelto per l’ edizione italiana (1964) del testo: un termine che ha ascendenze classiche, corrispondente al “bios politikos” dell’Atene di Pericle; il vivere politico dell’uomo libero, cioè, fondato sull’azione (praxis) e sul discorso (lexis), un dialogo attivo e produttivo non solo per il singolo ma per l’intera comunità. Modello ideale di società che poco dopo l’isolata fase della democrazia ateniese era già destinato ad entrare in crisi con la prevalenza di forme oligarchiche di potere e a ulteriormente sgretolarsi in un mondo cristiano portato a separare inscindibilmente la vita terrena e politica dalle celesti aspirazioni spirituali. Un modello di cui però Arendt ribadisce il carattere costruttivo/collettivo, riproponendone l’analisi in chiave moderno-contemporanea e contrapponendolo alla vita contemplativa che costituiva l’immagine esistenziale privilegiata da Platone e Aristotele.
A spingere la filosofa in questa nuova direzione era certo stato il pensiero di Marx, che per primo e in modo molto tangibile aveva spostato l’attenzione sul piano dell’attività e della produzione umane. La sua analisi, tuttavia, poneva al centro la forza lavoro collettiva, sottratta ai lavoratori stessi e sfruttata dal mondo capitalistico per sviluppare ricchezza. L’esame di Hannah Arendt tralascia i connotati storico-economici marxiani per farsi più ontologico-qualitativo. Tre sono secondo lei le diverse attività che caratterizzano la vita activa: il lavoro, l’opera, l’azione; tre tipologie di coinvolgimento umano che, presenti già in età antica, continuano a esplicare le loro peculiarità nella fase decisiva in cui il passaggio alla modernità tende a diluire la sfera domestica nella sfera pubblica e l’agire individuale nel comportamento, spingendo di converso i cittadini a costruirsi uno spazio intimo lontano dal controllo del potere politico. Il lavoro è l’attività propria dell’ “animal laborans” finalizzata al mantenimento proprio e altrui attraverso la produzione di beni di consumo, il risultato di un agire legato a uno stato di necessità e che non lascia traccia dietro di sé, destinato dunque a continuamente riproporsi entro il circolo dei processi naturali legati all’organismo vivente.
L’opera, nel senso in cui la intende Hannah Arendt, è invece altra cosa rispetto al “lavoro dei corpi”; è il frutto dell’attività di quello che con termine rinascimentale ella chiama “homo faber” (definizione già usata nel Quattrocento da Leon Battista Alberti), cioè il costruttore intelligente del mondo artificiale che costituisce l’ambiente umano. Il prodotto di questo ingegno creativo tipico dell’uomo non sono più quindi beni di consumo, ma oggetti d’uso in grado di garantire una certa stabilità e un basilare benessere superiori al puro nutrimento derivante dal lavoro. E’ stata l’opera dell’uomo, dunque, la sua capacità di mettere a punto strumenti per migliorare la qualità della vita, a inventare – letteralmente – la civiltà. Capacità elaborativa e consapevolezza dei propri mezzi attraverso le quali il mondo antico, sempre attentamente vagliato dalla nostra filosofa, non a caso distingueva la condizione dell’uomo libero da quella dello schiavo. Pilastri della visione filosofica moderna quali Locke, Adam Smith e Marx avrebbero invece contribuito, secondo Arendt, a capovolgere il livello di considerazione strutturale tra opera della creatività e lavoro sociale; particolarmente Marx, ponendo nella forza-lavoro l’origine della produttività e quindi il perno della civiltà, non avrebbe individuato la sostanziale differenza tra opera e lavoro, con l’inevitabile conseguenza di dare centralità al mondo del lavoro e all’emancipazione sociale dei lavoratori lasciando però insoluto il problema della loro emancipazione politica.
Sviluppo comune dell’operare individuale, l’azione rappresenta la piena realizzazione della “vita activa”. E’ l’attività con cui gli uomini entrano direttamente in contatto tra loro, senza necessità di mediazioni tramite oggetti naturali o artificiali; è la manifestazione stessa della pluralità del mondo umano, valida in sé come tendenza alla costruzione collettiva, come condizione di ogni vita politica, fatta di relazioni che si articolano attraverso l’azione e il discorso. Contrariamente ad altre facoltà umane quali pensiero, creatività, lavoro e volontà, l’azione nella prospettiva arendtiana non è esercitabile in isolamento, mentre è la sola attività che mette in rapporto gli individui facendone una pluralità. In questo senso, il frutto dell’azione è da considerarsi una sorta di rinascita, un progresso che non esclude il conflitto ma è in grado di superarlo raggiungendo prospettive capaci di andare oltre le impasse e di imprimere una svolta utile al progresso.
Il complesso discorso di Hannah Arendt ci ha portato apparentemente molto lontano, ma nella sostanza dei suoi contenuti di fondo esso è molto vicino ai problemi connessi all’attuale situazione di crisi e di stallo post-pandemia. Anche oggi abbiamo bisogno di una vera e propria rinascita, capace come la “vita activa” di concretarsi in azione viva e propositiva, utile al bene comune e non frutto di scelte verticistiche finalizzate a posizioni di privilegio, carica di prospettive pragmatiche figlie di un ingegno creativo e costruttivo del tutto confrontabile con la competenza operativa di cui parla il nostro testo. Soprattutto, mi sembrerebbe molto importante che i nostri politici, a qualsiasi gruppo appartengano e particolarmente in un frangente delicato come l’attuale, si conformassero al modello arendtiano di azione politica, una visione ispirata al dialogo, allo sviluppo costruttivo di posizioni utili al bene collettivo, nell’esclusivo interesse dei cittadini.
David Sorani
(26 maggio 2020)