Una morte nera
Se mi fossi già scordato di George Floyd sarei una bestia. Non sarà facile dimenticarne l’agonia, gli occhi fissi a guardare la paura e la morte, il fiato che gli esce flebile dalle labbra, ‘I can’t breathe’.
Vorrei dimenticare invece lo sguardo indifferente, freddo e vuoto, di Derek Chauvin, il poliziotto con il ginocchio incollato contro il collo di Floyd. Lo sguardo privo di emozione di un automa programmato per il male e immune da sentimenti, che per nove interminabili minuti tiene in suo barbaro potere la trachea e la vita di un altro uomo. Vorrei dimenticarlo quello sguardo, e non ci riesco.
La belva, glaciale, si erge a giudice inappellabile per decidere della vita e della morte, e sceglie la morte. Sentenza irrevocabile e morte immediata, in diretta. Morte per soffocamento, peggio che l’istituzionale cocktail letale iniettato per via endovenosa. Senza neppure la copertura formale di una sentenza.
Non serve gridare lo scandalo della coscienza per una morte inutile. L’America è fatta così, o se si preferisce, l’America è anche questo. Superfluo, quindi, cercare di giustificare l’omicidio con le possibili colpe del nero George Floyd. Superfluo, benché vero, sostenere che episodi del genere in fin dei conti sono accaduti anche in Italia: a Giuseppe Uva, a Stefano Cucchi, a Federico Aldrovandi, a Riccardo Magherini. Violenza gratuita da parte delle forze dell’ordine di un paese civile, certo, ma almeno non accompagnata dall’aggravante del razzismo, per quanto poca consolazione la cosa possa procurare. Superfluo anche affermare che l’America, malgrado tutto, è la terra della libertà e della democrazia, perché è anche la terra in cui alla sanità ha accesso solo chi ne ha le possibilità economiche, la terra delle disuguaglianze profonde, radicate e inconfutabili. È il paese in cui un maschio afroamericano ha una probabilità due volte e mezzo superiore a un bianco di non uscire vivo da un confronto con la polizia. È vero che anche durante la presidenza del nero Barack Obama la polizia non ha smesso di brillare per violenza, e tuttavia è poco contestabile che Trump abbia dato voce, spazio e mano libera all’azione violenta di nativisti e suprematisti bianchi.
Chi uccide un uomo uccide il mondo intero, insegna il Talmud (Sanhedrin 37a). Lo si cita spesso, a proposito e a sproposito. Certo è che chi ha ucciso George Floyd ha ucciso non solo il suo mondo, ma lo stesso sentimento di umanità su cui è fondato il mondo in cui viviamo tutti noi.
Che sia in corso una rivolta di fronte all’ingiustizia istituzionalizzata, l’ingiustizia in uniforme, non dovrebbe sorprendere nessuno spirito democratico. Condannabilissimo, naturalmente, che la rivolta abbia preso la strada della violenza e del crimine, ma si sospetta fortemente, come si sa, che anche in questa violenza ci sia lo zampino strumentale dei suprematisti trumpiani.
Ciò che ci si chiede con lo strazio nel cuore, ciò che non si riesce a capire, è che cosa possa passare per la mente e per l’animo di un uomo che si vede morire sotto gli occhi un altro uomo, un uomo uguale a lui cui toglie l’ultima cosa che gli resta: il respiro. Un uomo ucciso con fredda premeditazione dalla fisicità del suo stesso corpo, un omicidio autorizzato dalla divisa.
Che cosa avrà pensato quel poliziotto mentre asfissiava il nero George Floyd? Avrà mandato un pensiero orgoglioso ed eroico ai propri figli? Che cosa avrà pensato accorgendosi di avere ormai un cadavere sotto di sé, un uomo soffocato deliberatamente da lui stesso? Gli saranno tremate le mani? Gli si sarà accelerato il battito cardiaco? Gli si sarà offuscata la vista? O sarà rimasto impassibile dinnanzi alla morte del suo simile, non riconoscendolo anzi come suo simile, in quanto nero e umano? Forse per lui il nero meritava di morire. O non lo meritava: semplicemente, non aveva nessuna importanza che morisse, era una possibilità indifferente a lui e alla sua profonda, illuminata Weltanschasuung.
Ma il soldato Derek Chauvin va salvato, e va salvato lo stato che lo protegge e che esita tanto a condannarlo apertamente e senza mezzi termini. Per salvarlo basterà asserire che George Floyd era un criminale, che era un drogato, che era già molto malato di suo, forse predestinato a una morte imminente. Il rischio di condannare Chauvin è che si condanni insieme a lui un intero sistema sociale, culturale e politico, e questo non può accadere. Non può accadere che l’America che amiamo sappia liberarsi dei suoi tanti Derek Chauvin.
Salvate dunque il soldato Chauvin, e dimenticate che George Floyd è morto come è morto: ci dimenticheremo presto di lui. Ci saranno poi altri George Floyd, e dimenticheremo anche quelli. Ma c’è una canzone di Phil Ochs, resa famosa da Joan Baez: “There but for fortune go you or I”. È solo per un caso della sorte che al suo posto non ci siamo stati noi, anche se ci risulta così difficile capirlo e crederci. E sta proprio nel capirlo e nel crederci il discrimine fra l’umanità e la disumanità.
Con lo sguardo di George Floyd nella mente e davanti agli occhi, la notte non può che essere un incubo.
Ora, chissà che un processo giusto e rivoluzionario non risvegli la coscienza dell’America razzista e ridia al paese l’immagine che merita, nel rispetto del principio che i suoi Padri fondatori vollero fissare nella Dichiarazione di Indipendenza: “Tutti gli uomini sono stati creati uguali, essi sono dotati dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabili; fra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità”.
Dario Calimani, Università di Venezia
(2 giugno 2020)