La memoria di Masada

Nel corso di un convegno organizzato a Napoli lo scorso 25 gennaio, in occasione del XXV anniversario della fondazione dell’Istituto Italiano di Bioetica della Campania (i cui atti stanno per essere pubblicati, in un volume a cura di Raffaele Prodomo), ho avuto modo di svolgere alcune brevi considerazioni prendendo spunto da tre distinti episodi: la morte di Saul, il supplizio di Rav Chaninà e il suicidio collettivo degli zeloti a Masada.
Quest’ultima vicenda, com’è noto, ci è raccontata da Flavio Giuseppe, il comandante militare ebreo che, catturato dai romani, riuscì a ingraziarsi il comandante Vespasiano, predicendogli che sarebbe diventato imperatore – cosa che infatti, poco dopo, avvenne -, tanto da essere da lui assunto come interprete nelle trattative con gli ebrei assediati a Gerusalemme (cercò, invano, di convincere alla resa i suoi connazionali, che però non lo ascoltarono, disprezzandolo in quanto traditore). A guerra terminata, quando Vespasiano era ormai diventato imperatore, Giuseppe lo raggiunse a Roma, dove, alla sua corte, scrisse le sue famose opere, la Guerra Giudaica (ove si narra del conflitto del 66-70 d.C. e, in esso, dei fatti di Masada) e le poderose Antichità Giudaiche (fonte di straordinaria importanza, preziosissimo serbatoio di innumerevoli notizie su secoli di storia ebraica, per i quali disponiamo di pochissime altre testimonianze).
Giuseppe, per quanto ideologicamente fazioso e di parte (inseguito dall’accusa di tradimento, suo scopo principale fu sempre quello di giustificare la missione salvifica di Roma – arrivò addirittura a dire che Vespasiano sarebbe stato il Messia, addossando agli zeloti – e, in parte, al procuratore romano Gessio Floro – la responsabilità della tragedia), è considerato una fonte molto attendibile, e gli storici sono fondamentalmente concordi nel dare credito anche al racconto dell’assedio degli zeloti, che trova ampi riscontri archeologici e documentali. Il famoso discorso – riportato nel testo della Guerra Giudaica – con cui il capo dei resistenti, Eleazar, convince i suoi compagni a darsi la morte, per non cadere vivi nelle mani dei nemici, però, è certamente un’invenzione dell’autore.
Come è stato evidenziato, in particolare, dal grande storico Pierre Vidal-Naquet (dal quale ebbi l’onore, ventitreenne, di ottenere la mia prima recensione, per la mia prima pubblicazione, dedicata appunto al racconto di Giuseppe), il discorso di Eleazar ha un tono e un contenuto apocalittico, ed è incentrato sull’idea che Dio aveva ormai abbandonato il suo popolo, destinato quindi a scomparire. Ma, proprio come ultimi rappresentanti di un popolo chiamato all’estinzione, gli zeloti avevano la grande responsabilità di far sì che esso morisse, com’era vissuto, all’insegna della libertà, anziché della servitù. Ma Flavio Giuseppe, che scrive il discorso, era invece convinto del contrario: “Masada non era la fine del popolo ebraico”, e il discorso apocalittico inserito nel racconto sta proprio ad attestare quello che, secondo il narratore, sarebbe stato un tragico errore di Eleazar, a cui lo storico fa pronunciare un’“apocalisse di morte, un’apocalisse senza speranza”. “Giuseppe – scrive Vidal-Naquet – è un profeta di vita, e non viene creduto, Eleazar è un profeta di morte, e viene ascoltato”.
La vicenda di Masada, oltre a rappresentare una pagina tragica, dolorosa e gloriosa della storia del popolo ebraico, costituisce anche un importante elemento di riflessione sul piano del dibattito bioetico, in quanto collegata al controverso problema della legittimità del suicidio, quando imposto da particolari, oggettive circostanze. Quale lezione si può ricavare dalla scelta radicale di Eleazar e dei suoi seguaci? Non può esistere, ovviamente, un insegnamento univoco, e molte, infatti, sono le interpretazioni che sono state fornite di questo gesto. Quel che si può dire è che resta un dato di fatto che i soldati di Masada sono annoverati tra gli eroi della storia ebraica, lungo un filo di assoluta e diretta continuità tra l’Israele antico e quello moderno. Centinaia di migliaia di reclute di Tzahal sono state portate sulla rocca, per giurare che “Masada shall never fall again”, Masada non cadrà mai più. Un giuramento, ovviamente, che non impegna a ripetere il gesto dei resistenti, ma a far sì che mai più si ripetano le circostanze che portarono a quell’esito. E quando, agli inizi degli anni ‘60, furono trovati, tra le rovine, 27 scheletri umani (che furono ritenuti, nonostante alcune incertezze, appartenenti ai corpi di alcuni degli zeloti), questi ricevettero dei funerali di Stato.
Si trattava di soldati di Israele, perché l’Israele di ieri è lo stesso di oggi, caduti nell’assolvimento del loro dovere di difendere la patria.

Francesco Lucrezi

(3 giugno 2020)