Il mito degli Stati Uniti

L’orribile episodio di Minneapolis, dove il poliziotto Derek Chauvin ha ucciso l’afroamericano George Floyd se non con premeditazione certamente con volontà, ha scatenato negli Stati Uniti le violente reazioni che si stanno protraendo da giorni e che anche nel resto del mondo ha messo in moto altri movimenti, non sempre limpidi nelle loro motivazioni.
E’ difficile andare oltre l’episodio mentre gli eventi sono in corso e la violenza attraversa ancora le città degli Stati Uniti. Tuttavia non ci si può sottrarre al dovere della riflessione, tanto più che l’episodio è diventato l’esca per una nuova ondata di antiamericanismo in tutto il mondo.
Come sempre accade, l’America, più di qualsiasi altro Paese, è oggetto di pulsioni di amore oppure di odio, senza che ci sia spazio per sentimenti intermedi. Questa volta, come in altre occasioni, prevale l’odio, ed è necessario cercare di capire non solo da dove nascono le spinte distruttive che agitano le città americane ma anche le reazioni antiamericane diffuse nel mondo.
Dobbiamo tener presente che negli ultimi settanta anni gli Stati Uniti sono stati visti attraverso la lente di due miti opposti: subito dopo la II guerra mondiale sono stati rappresentati come il Paese della libertà e della democrazia e niente ha potuto contro questa immagine consolidata la propaganda antiamericana diretta dall’URSS e diffusa dai vari Partiti comunisti. Con la guerra del Vietnam e con i movimenti giovanili degli anni ‘60 il mito si è rovesciato e gli Stai Uniti sono diventati, nell’immaginario di tutto il mondo, il Paese dell’imperialismo e dello schiavismo. E’ inutile chiedersi quale dei due miti sia vero: i miti non sono né veri né falsi, sono ondate di suggestioni collettive contro le quali poco può il ragionamento razionale e analitico.
Possiamo però cercare di capire che cosa c’è sotto il mito, quali sono le correnti profonde che formano l’identità americana. Se ci si muove lungo questa strada ci si accorgerà che l’episodio di Minneapolis è rivelatore di un problema profondo, che ha a che fare con l’identità stessa degli Stati Uniti, un’identità fin troppo complessa e plurima se la confrontiamo con quella dei Paesi europei, dove sono coesistiti libertà e schiavismo, democrazia e imperialismo. Sono nodi che è difficile sciogliere e che rivelano tutto il loro peso quando si verificano episodi come quello di Minneapolis.
Non si creda che con queste riflessioni mi voglia allontanare troppo da quello che è accaduto e sta accadendo in questi giorni: si deve prendere atto, una volta di più, della propensione di troppi poliziotti americani a impiegare metodi brutali, lontani da quel “respect” che pure figura accanto a “courtesy” e a “professionalism” sul fianco delle auto della polizia newyorkese, così come, con parole analoghe, su quelle della polizia di altri Stati. Così come si deve prendere atto della propensione alla violenza di una parte almeno della popolazione afroamericana.
Bisogna scavare in tutte e due le direzioni per cercare di capire ciò che sta accadendo: nella facilità con la quale troppi poliziotti americani usano la violenza, così come una violenza diversa ma ugualmente devastante caratterizza i comportamenti di una parte rilevante della popolazione afroamericana.
Per quanto riguarda l’atteggiamento dei poliziotti, la radice è, almeno in parte, evidente: il timore mescolato al disprezzo per la popolazione afroamericana porta talvolta a ignorare i diritti di quest’ultima, specialmente in alcuni Stati, anche se non si può ignorare che nel caso in questione il Minnesota non è uno Stato del Sud, anzi è uno dei più settentrionali degli Stati americani. Ma non si può nemmeno trascurare il fatto che episodi di violenza ad opera di poliziotti nei confronti di singoli individui si sono verificati anche in altri Paesi, non esclusa l’Italia: e qui entrano in gioco altri fattori, come la frustrazione per la presunta tolleranza da parte della magistratura di reati che l‘azione della polizia intende reprimere, così come un mal riposto senso di onnipotenza derivante dall’indossare una divisa. In ogni caso, il gesto del capo della polizia di Minneapolis Medaria Arredondo che si è inginocchiato nel luogo della tragedia per ricordare George Floyd, seguito da analoghi gesti di altri poliziotti, può aprire scenari nuovi e migliori, anche se non bisogna abbandonarsi a facili ottimismi.
Dalla parte della popolazione afroamericana andrebbero considerati, oltre al giusto sdegno e alla giusta rabbia per un assassinio come quello di Minneapolis o altri analoghi, l’azione di sobillazione e di incitamento alla violenza compiuta da gruppi estremistici di ispirazione islamica. In questi giorni è stata giustamente messa in evidenza l’opera di gruppi di suprematisti bianchi, interessati a creare per i loro fini la massima violenza. Ma non si può tacere dell’opera sotterranea o palese di gruppi afroamericani il cui estremismo è giunto a lambire o anche, in qualche caso, a oltrepassare le soglie del Congresso americano. Non si possono ignorare episodi come quello della vandalizzazione della Sinagoga di Los Angeles, che non avrebbe senso se lo riconducessimo meccanicamente a quello di Minneapolis ma che rientra invece bene negli schemi di una violenza solo in parte spontanea e per molti versi fomentata da organizzazioni estremiste.
Resta infine da dire qualche parola sul comportamento del presidente Trump. Come al solito il presidente non ha saputo trovare le parole giuste, ammesso che fosse possibile trovarne nella situazione che si è determinata. Ma da qui a considerarlo, almeno moralmente, responsabile di quanto accaduto, come qualcuno ha fatto, ce ne corre. Episodi di razzismo di non minore gravità di quello di Minneapolis sono avvenuti sotto tutte le presidenze, repubblicane o democratiche. Così come sotto tutte le presidenze sono avvenuti episodi di rivolta e di devastazioni da parte della popolazione afroamericana come quelli che si sono verificati in questi giorni. Si può parlare di razzismo endemico, così come è endemica la propensione alla ribellione e alla violenza di una parte della popolazione afroamericana.

Valentino Baldacci