Machshevet Israel “Ebraicizzare” Kant
È un peccato che nessun testo di Isaac Breuer (1883-1936) sia – per ora – disponibile in traduzione italiana. Si tratta di uno dei pensatori più originali della simbiosi ebraico-tedesca, sebbene sia stato oscurato da Rosenzweig, più critico di lui verso la filosofia idealista tedesca, da un lato e dall’altro da rav Kook, più incline di lui sul versante dell’ortodossia a riconoscere l’impresa sionista dei giovani chalutzim. Il suo stare in mezzo a giganti non gli ha giovato ma la sua originalità sta proprio nel non confondersi con i due e nell’aver rivisitato la storia del pensiero ebraico da una prospettiva critica, quella kantiana, andando oltre persino la mediazione di Hermann Cohen. Se Cohen infatti ha tentato (in parte riuscendovi) di “kantianizzare il giudaismo”, in modo più ambizioso Breuer ha cercato di “ebraicizzare Kant”, a sua volta in parte riuscendovi. Il che significa(va) adottarne le categorie reinterpretandole a partire della Torah, e poi – giusto per complicare il quadro – riconoscere alcuni elementi di un interprete del kantismo come Schopenhauer. Insomma, una battaglia tra titani della filosofia tedesca, nella quale Breuer ha fatto la sua parte riscattando il giudaismo e la Torà dagli inveterati pregiudizi antiebraici condivisi da tutti quei filosofi.
Nipote per ramo materno di Samson Raphael Hirsch, Isaac Breuer – che diversamente da molti ortodossi si distinse come prolifico poligrafo (scrisse persino romanzi e libri per bambini) – si appropriò della distinzione kantiana tra noumeno (o cosa in sé) e fenomeno (la cosa a noi conoscibile con i limitati strumenti della ragione) per articolare la modalità ebraica di pensare il mondo. Infatti, in quanto fenomeno il mondo si offre ebraicamente all’uomo come ‘natura’ e come ‘storia’, interagibile e accessibile – seppur imperfettamente – dalla ragione umana; ma in quanto noumeno, il mondo si rivela, per così dire, come creazione attraverso la Torà, ad un tempo come ‘velo’ e ‘rivelazione’, depositari delle intenzioni segrete del Creatore. E’ su questo terreno, quello della Torà come essenza/cosa in sé, che Breuer scivola poi nell’interpretazione schopenhaueriana di Kant perché, come in Schopenhauer, il mondo è ‘casa della volontà’, dell’agire volitivo e passionale dell’uomo, più che ‘tempio della conoscenza e della rappresentazione’. Non è un caso che quest’enfasi sulla volontà divina (accessibile come Torà) e umana (praticata come legge, halakhà) abbia trovato espressione in uno scritto di Breuer del 1934 dal titolo Der Neue Kusari, ovvero Il nuovo Kusari, una perorazione della causa del giudaismo halakhico ispirato all’opera apologetica (di sapore anti-razionalista) Kuzari, Il re dei kazari in italiano, del medievale Jehuda HaLevi. Un secolo prima Nachman Krochmal aveva scritto un Morè nevukhè ha-zeman, una Guida dei perplessi del nostro tempo, ispirandosi al razionalismo di Maimonide… I due grandi fari del medioevo ebraico sono serviti ad illuminare l’ebraismo europeo in tempi e frangenti storici radicalmente diversi. Primato della ragione o primato della volontà? Spesso sono i tempi a decidere cosa sia più necessario.
Scrive il filosofo ortodosso americano Walter Wurzburger: “Secondo Breuer, se Kant fosse stato un ebreo osservante, il suo genio filosofico lo avrebbe portato a conclusioni tali da rendere il suo sistema ancor più convincente (…) è la Legge divina, più che il formalismo razionale dell’imperativo categorico, a rendere davvero libero l’essere umano sradicandolo dagli ostacoli del determinismo che caratterizza il mondo fenomenico”. Liberata così dalla mera dimensione storico-naturale, l’esistenza umana può sollevarsi alla dimensione meta-naturale e meta-storica della Torà, ed quest’ultima dimensione che rende Israele – in quanto popolo della Torà – diverso da tutti gli altri popoli. Vivere secondo questi standard meta-fisici pone un’analogia tra la Torà e il concetto kantiano di ideale regolatore, al quale ci si può avvicinare ma che asintoticamente non si può mai raggiungere. La Torà, per dirla ancora con Wurzburger, proietta Israele in una meta-storia. Quest’idea non è molto dissimile dalla filosofia ebraica di un Rosenzweig e dalla storiosofia di un rav Kook, ma paradossalmente servì al primo per essere ‘indifferente’ al sionismo e al secondo per vedere ‘fini trascendenti e sacri’ nel movimento sionista anche là dove non c’erano o erano addirittura contraddetti dalle azioni e dalle intenzioni. Forse in modo meno paradossale Breuer (che fece aliyà nel ’36) vide nel sionismo un mezzo per perseguire e avvicinarsi all’ideale di uno Stato della Torà, kantianamente ‘il regno dei fini’, ben sapendo che nessun apparato statale e nessuna società umana può realizzare in modo compiuto e perfetto quell’ideale. E così Isaac Breuer fu poco o punto compreso sia dai sionisti (laici) che dagli avversari (ortodossi) del sionismo, sia dai liberali che dagli anti-moderni… La lezione della Torà im derekh eretz, il motto del nonno Samson Raphael Hirsch, si rivelò per Breuer più difficile da attualizzare di quanto non fosse stato leggere e capire Kant.
Massimo Giuliani, Università di Trento