Socialità, nuove forme e nuove sfide

Una serata davvero importante per riflettere su quanto le nuove forme di socialità in questi tre mesi di emergenza abbiano impattato nel mondo in generale e nel microcosmo del mondo ebraico italiano in particolare.
A parlarne ieri sera per Anavim, associazione culturale che opera nella Comunità ebraica di Torino, quattro relatori – introdotti e “interrogati” da Shemuel Lampronti – con quattro professionalità diverse e in qualche modo complementari.
Enzo Campelli, ordinario di Metodologia delle Scienze Sociali, ha sottolineato le opportunità delle nuove forme di socialità e ha messo in guardia contro i loro aspetti deleteri di erosione delle forme di comunicazione diretta, per concludere quanto sia ricorrente per l’umanità il bisogno di comunità. E se comunità è anche ciò che esclude, perché, per definizione, ha dei confini, non si può dimenticare che da Campanella a Bacone, sia perdurante nel pensiero occidentale il sogno di comunità.
È stata poi Sarah Randaccio, psicologa e psicanalista, Consigliere della Comunità ebraica di Torino, a spiegare che “nessuno si salva da solo”, sempre per il bisogno di comunità. Ha poi messo in luce, proprio sull’esperienza recente vissuta nella Comunità torinese, come l’isolamento danneggi soprattutto le persone più fragili e ha dimostrato come anche una semplice telefonata di vicinanza ad ognuno serva a far sentire tutti più partecipi.
Amedeo Spagnoletto, rabbino e neo-direttore del Meis, ha voluto sottolineare come si sia sopravvissuti a due mesi senza il Tempio, ma non senza parole di Torà, anche per chi è abitualmente lontano e si è invece connesso alle lezioni dei rabbanim, e non solo a queste, a un vero e proprio universo di eventi, dibattiti, collegamenti assai partecipati. Naturalmente, ha poi aggiunto, occorre tornare anche alla socialità tradizionale.
Infine Marco David Benadì, pubblicitario ed esperto di comunicazione, ha illustrato come il mondo della pubblicità e della comunicazione e l’impatto della tecnologia abbiano polarizzato due sentimenti: da un lato, uno più negativo, associato alla quarantena, al panico, al rischio, alla salute, alla paura, alla morte e dall’altro lato un sentimento fortemente positivo di solidarietà, di unità, di sentirsi parte di una comunità e far fronte comune al problema
Cosa resterà di quest’esperienza? Sicuramente un senso non solo di superficie di una nazione più unita, una maggiore attenzione al senso e alla responsabilità sociale, alla tutela, alla protezione, al charity e anche un: “Invece che vederci al bar ci vediamo su zoom”. E questo è stato uno straordinario acceleratore anche per il mondo della cultura, dell’educazione, della scuola, anche se manca il calore umano, il sudore emotivo, la relazione, sempre che “fossimo così convinti che prima del lockdown ci fosse tutto questo affetto fra di noi e questa grande socialità, come se il mondo prima del lockdown fosse un mondo da fiaba”.
Ma la sfida è proprio questa: il mondo delle comunità ebraiche ha sul tavolo, per ragioni geografiche, culturali, normative e di principio, un tema di distanziamento-avvicinamento, a seconda di come lo si voglia interpretare e la tecnologia è uno strumento che può avvicinare le persone a una vita ebraica più partecipata. Ma questo non basta.
Pubblico presente da molte città italiane (Milano, Siena, Roma, Verona, Palermo) e anche da Israele, diversi Consiglieri UCEI e anche la Presidente Noemi Di Segni collegati. Per capire e raccogliere la sfida.

(9 giugno 2020)