L’uso corretto della parola
A conclusione della Parashà di Behaalotechà, che leggeremo questo Sabato, troviamo l’episodio (Numeri 12, 1-14) che si sviluppa a partire da alcune malevoli insinuazioni sorprendentemente sollevate a proposito di Mosè da parte di Miriam e Aron, fratello e sorella del profeta, proprio le persone a lui più vicine, non solo per relazione di parentela ma per condivisione di sentimenti. Le contestazioni riguardano due diversi soggetti, in prima battuta toccano aspetti della vita privata di Mosè, non chiaramente espressi dal testo: “Miriam e Aron parlarono contro Mosè a cagione della donna etiope che aveva preso” – secondo Rashì, sulla base del midrash, si tratterebbe di problemi della sfera coniugale con la moglie Zipporà, dovuti al ruolo pubblico di Mosè che lo assorbiva totalmente; le critiche convergono poi su presunti atteggiamenti di superiorità attribuiti al profeta, rispetto ai quali Miriam e Aron rivendicano di essere essi stessi, non di meno, raggiunti dalle parole del Signore: “Il Signore ha forse parlato esclusivamente per mezzo di Mosè? Ha parlato anche a mezzo nostro”. Mosè non reagisce ma D.O stesso interviene rimproverando severamente il fratello e la sorella di Mosè, manifestando le sue doti morali – “L’uomo Mosè era molto modesto, più di ogni uomo sulla faccia della terra” – e ribadendo la differenza del livello di profezia di Mosè, che godeva di un’intimità di colloquio con l’Eterno incomparabilmente superiore rispetto a quello di Miriam e di Aron. L’episodio si conclude con la punizione di Miriam che viene colpita dalla piaga della tzara’at, mitigata dalla preghiera di Mosè, che tuttavia costringe la sorella del profeta a restare per sette giorni isolata dall’accampamento; l’evento viene rievocato nell’ultimo libro della Torah ( Deut. 24, 8-9 ) “Ricorda ciò che fece il tuo D.O a Miriam, quando eravate in viaggio uscendo dall’Egitto” come monito rispetto alla grave colpa di lashon harà, pettegolezzi, calunnie e maldicenza che, come dimostra l’episodio, possono sfuggire anche dalla bocca di ottime persone che occasionalmente si lasciano condizionare e trascinare da sentimenti e stati d’animo negativi.
Su questo argomento, sull’uso improprio e talora micidiale della parola per riportare senza alcun utilità discorsi e fatti altrui e per esprimere giudizi negativi su altre persone, esiste un’approfondita trattazione che ne espone tutti i casi e particolari, si tratta del testo composto dal grande Rabbino Israel Meir Ha-Cohen, noto, proprio dal titolo di quest’opera, con l’appellativo di Chafetz Chaim, “Desidera la vita”, con riferimento al passo dei Salmi ( 34, 13-15) che in modo particolare si richiama al dovere di controllare le nostre parole “ Chi è colui che desidera la vita, che desidera lunghi giorni per essere felice? Preserva la tua lingua dal male e le tue labbra dal parlare con frode”. Il Maestro ravvisa nelle varie manifestazioni di lashon hara’, malalingua, dal pettegolezzo alla maldicenza, la possibile trasgressione di ben trentun precetti della Torah, ovvero diciassette divieti e quattordici precetti affermativi; possiamo forse intendere questo enunciato non solo come l’affermazione della estrema gravità delle colpe di questo genere ma come un richiamo al fatto che, nel momento in cui arriviamo a colpire altre persone con l’uso sconsiderato della parola, abbiamo già disatteso tutta una serie di comandamenti che la Torah stabilisce proprio per portarci a costruire relazioni positive con il prossimo e se necessario intervenire in tempo e in modo opportuno su situazioni critiche, prima che evolvano verso più gravi conseguenze. Fra i precetti trasgrediti con la lashon hara’, che rav Chafetz Chaim ricorda, troviamo ad esempio “Non odiare tuo fratello in cuor tuo, ammonisci il tuo prossimo” (Lev 19,17); fin quando possibile, la percezione di aver subito un torto o un’offesa o di essere stati testimoni nei confronti di altri, non deve essere conservata come un risentimento che cova nel nostro cuore e che, per l’appunto, può poi prorompere nella calunnia e nella maldicenza nei confronti del vero o presunto colpevole, va invece espresso apertamente al soggetto in questione dandogli così modo di chiarire il suo comportamento e, se del caso, di ravvedersi e di giungere alla riparazione del male compiuto. Ancora, la Torah prescrive anche ( Lev. 19.18) “Non vendicarti e non serbare rancore”, in relazione al fatto che la malalingua può costituire una forma di vendetta, improvvisa o covata nell’animo, in conseguenza di uno sgarbo subito, un modo per far ripagare un diniego ricevuto, un favore richiesto e non appagato. Questo richiamo ci fa vedere come, a monte della maldicenza, ci siano già situazioni di incomprensione, durezza di sentimenti, chiusure, su cui entrambe le parti dovrebbero rivedere i propri atteggiamenti. In altri casi l’elenco di trasgressioni che Rav Chafetz Chaim associa alla malalingua ci fa riflettere su altre mancanze e debolezze del soggetto che se ne rende colpevole, ad esempio ci richiama al divieto di adulazione, quando si esprimono giudizi negativi su terzi con il proposito di incontrare il favore e trarre qualche utile da persone che sappiamo essere in conflitto con il soggetto contro il quale ci esprimiamo; la malalingua è anche spesso indice di giudizi affrettati, incauti, di valutazioni negative che si esprimono su fatti e situazioni che giudichiamo senza conoscere adeguatamente, senza sforzarci di andare a fondo, di conoscere, di renderci conto in modo più approfondito, cosi contravveniamo all’obbligo di “tendere ad un giudizio positivo”, cioè al dovere, allorquando assistiamo a comportamenti dubbi, di cercare in prima battuta possibili spiegazioni che non attribuiscano al nostro prossimo colpe magari non reali. È poi ovvio che l’uso sconsiderato della parola acquisti una maggiore gravità in relazione all’ambito di persone in cui questo si manifesta. A questo proposito la Torah, attraverso il divieto (anche in senso metaforico) di “Non porre inciampo davanti al cieco” ( Lev. 19,14) ci ricorda che siamo responsabili non solo per il male che compiamo personalmente ma anche per quello che ne deriva in conseguenza del fatto che possiamo indurre altri ad analoghe colpe con le nostre parole e il nostro esempio, in questo caso sapendo quanto la malalingua sia suscettibile di essere riportata dagli ascoltatori magari ulteriormente aggravata, condita con ingredienti di tendenziosa fantasia.
I casi riportati sono evidentemente esemplari di situazioni molto più ampie ed articolate in cui pettegolezzi, insulti, maldicenze e calunnie sono espressioni di mancanze e criticità varie nei valori di riferimento, nei comportamenti, nei rapporti sociali, nella formazione stessa del carattere delle persone, nella difficoltà a riconoscere innanzitutto i propri punti deboli; la Torah con i suoi diversi precetti, ci mostra come l’uso corretto della parola nelle relazioni sociali faccia parte di un processo di educazione che riguarda tutta la vita e la persona e ci richiama ad un approccio più globale e profondo verso il problema della malalingua che spesso rivela gli aspetti peggiori di quanti ricorrono a tali espressioni.
Rav Giuseppe Momigliano, rabbino capo di Genova