Giornalisti, giornali, democrazia
Da grande vuoi fare il giornalista o il poliziotto?
Se avessero rivolto questa domanda a qualcuno della mia generazione (almeno, tra quelli che frequentavo) quando eravamo adolescenti credo che la prima delle due opzioni avrebbe avuto un consenso plebiscitario: i giornalisti non sono forse i custodi della democrazia, quelli che indagano sui potenti, rivelano oscure trame, scovano scheletri nell’armadio, collusioni, amicizie imbarazzanti? Film come “Tutti gli uomini del presidente” hanno dominato il nostro immaginario per decenni. Invece i poliziotti erano visti come gli ottusi difensori dell’ordine costituito.
Con un po’ di sorpresa ho scoperto che per i miei allievi non è affatto così: da molti dei loro discorsi viene fuori che nel loro immaginario i giornalisti sono persone losche, che guadagnano molti soldi se creano scandali diffamando persone oneste e rovinando loro la vita. Provo a far notare che è normale essere pagati per svolgere il proprio mestiere, anche io sono pagata per insegnare Dante, e prontamente mi rispondono: “Sì, ma non per diffondere falsità sul suo conto.” Provo a ricordare che esiste l’articolo 21 della Costituzione (la libertà di stampa) e qualcuno mi ribatte citandomi l’articolo 27 (la presunzione di innocenza). Del caso Watergate, e di altre vicende simili, non sembra abbiano mai sentito parlare.
Eppure la discussione era nata commentando l’incontro avuto qualche mese fa con Federica Angeli (la giornalista di Repubblica da anni sotto scorta per le sue inchieste sulla mafia a Ostia), che ai ragazzi è piaciuta moltissimo, ma, a quanto pare, non abbastanza da riabilitare la categoria ai loro occhi. Secondo i miei allievi i giornalisti non dovrebbero mettersi a fare i detective: le indagini spettano alla polizia, che a quanto pare ispira loro molta più fiducia. Sarà l’effetto Montalbano, come mi ha suggerito qualcuno? Resta il fatto che oggi l’immagine del giornalista è terribilmente screditata e questo non è affatto un buon segno. Benissimo ha fatto dunque Pagine ebraiche di maggio a dedicare un dossier ai giornalisti.
Ma sarà poi davvero un fatto generazionale? O forse l’amore per la carta stampata è (o è stata) una peculiarità del mondo ebraico italiano? Riflettendo sulla discussione avuta con gli allievi mi sono resa conto che da quando avevo 15 anni, cioè uno o due meno di loro, ne ho trascorsi solo tre o quattro (di cui uno in Israele, da cui scrivevo lettere-reportage) senza far parte della redazione di un giornale ebraico. Certo non posso generalizzare il mio caso personale, comunque da noi la corsa a stampare, ciclostilare, fotocopiare giornali è stata per decenni straordinaria. Quante comunità, gruppi, organizzazioni ebraiche italiane hanno dato vita a una propria testata? E quanti sono gli ebrei italiani che almeno una volta hanno scritto qualcosa su una di queste testate? Lo so che tutto questo ha poco a che fare con il giornalismo come professione, così come i ragazzini che giocano a calcio per strada hanno poco a che fare con i calciatori professionisti; ma i calciatori godrebbero del medesimo prestigio se il calcio non fosse una passione così diffusa nel paese? Allo stesso modo, forse, chi si abitua fin da piccolo a considerare i giornali come un bene prezioso, per cui è giusto spendere soldi, tempo ed energie, sarà maggiormente portato ad apprezzarne la funzione essenziale per la tutela della democrazia. E dunque, dal momento che nella mia scuola si pubblica un giornale studentesco di buon livello, non posso che augurarmi che i miei allievi prima o poi siano coinvolti nella sua realizzazione. E tra gli ebrei italiani di oggi? La passione per la carta stampata è ancora così diffusa come un tempo? Mi piacerebbe poterlo credere.
Anna Segre