Giovannino Di Castro (1924-2020)
Il mondo degli Italkim, gli italiani di Israele, in lutto per la scomparsa di Giovannino Di Castro.
Nato a Roma, era stato tra i fondatori del kibbutz religioso Sde Eliyahu istituito nel 1939 nel nome del rabbino tedesco Eliyahu Gutmacher (1796-1875): tanti i giovani che, ispirati dalle sue idee, si rimboccarono le maniche e profusero le migliori energie per costruire un villaggio socialista nella valle del Giordano.
Giovannino vi arrivò nel dopoguerra, lasciandosi alle spalle le ferite romane e italiane. Nel nascente Stato ebraico trovò la donna che sarebbe stata la sua compagna di vita: la triestina Nora Ravenna, recentemente scomparsa. Una vita, quella di entrambi, contrassegnata da questa unione e dall’amore profondo per il kibbutz e gli ideali che li avevano spinti verso questa scelta faticosa ma entusiasmante (come ricordavamo su Pagine Ebraiche, nel novembre del 2013, nel testo che vi riproponiamo).
Tra gli olim più anziani giunti dall’Italia, Giovannino Di Castro ha incarnato le passioni di una generazione. La sua storia aveva colpito anche Oriana Fallaci, che con lui e altri pionieri italiani si intrattenne in dialogo durante una sua visita in Israele per intervistare Golda Meir.
I funerali di Giovannino Di Castro si svolgeranno questo pomeriggio alle 17.30, nel kibbutz Sde Eliyahu. Sia il suo ricordo di benedizione.
(Nell’immagine la casa dei fondatori del kibbutz Sde Eliyahu)
“In Israele la salvezza e l’identità”
Anche lei, quella mattina, sotto il sole di settembre, sulla piazza affollata. E anche la sua vita ha cambiato il suo corso in pochi minuti. Erano in tanti gli ebrei di Trieste in mezzo alla gente. Mussolini dal palco gettava verso la folla i suoi proclami di odio. Tutta la città era venuta ad ascoltarlo. E chi c’era fu testimone del principio della fine, della lacerazione che il fascismo aprì fra gli ebrei italiani e i destini sventurati dell’Italia. In quel luogo della grande piazza aperta sul mare dove il regime proclamò l’inizio delle persecuzioni oggi, 75 anni dopo, è stata posta una targa d’acciaio al suolo. I passanti si fermano incuriositi, leggono, fotografano le parole che ricordano il discorso che tradì gli ebrei italiani e portò l’Italia nel tunnel della rovina e della distruzione. Alcuni hanno letto l’intervista che Maurizio Nacmias ha rilasciato al giornale dell’ebraismo italiano Pagine Ebraiche, molti altri ancora hanno ritrovato la testimonianza ripresa a tutta pagina dalla Gazzetta dello Sport. E la memoria di quel giorno fatale attraversa il mondo, rimette in contatto chi allora era nella prima gioventù e doveva prepararsi a combattere per sopravvivere. Attraversa gli oceani e i mari per rimettere in contatto i triestini che dispersi in terre lontane non rinunciano ad alimentare un legame con questa città tutta speciale. Arriva in Israele, dove molti di loro sbarcarono giovanissimi e furono chiamati fra i protagonisti, nella Palestina del mandato britannico, per costruire un nuovo Stato, libero, democratico, progredito che fosse casa e protezione per gli ebrei di ogni dove. “Quel giorno – racconta oggi Nora Ravenna, che ha preso il nome di Nurith Ravenna Di Castro – si è decisa la mia vita. In uno spazio di tempo molto breve, da quando ho visto la gente di casa mia togliersi il cappello lungo la strada affollata al passaggio del corteo con Mussolini a quando siamo rientrati a casa disorientati e spaventati dopo il comizio che annunciava le leggi razziste quante cose sono cambiate”. Poche settimane ancora e avrebbe compiuto 15 anni. Ma la sera stessa la decisione da assumere con coraggio stava già davanti a tutti. Prepararsi alla partenza. Lasciare la città scegliendo come via d’uscita quella aperta riva che aveva visto il dittatore arrivare. Mai piegarsi alle persecuzioni. Alcuni mesi di preparazione e si era già nel 1939, infine la partenza per Israele. L’inizio di una nuova vita a testa alta, tutto un mondo nuovo da costruire mentre l’Europa sprofondava nell’abisso. Oggi Nurith trascorre le giornate assieme al marito Giovannino Di Castro, salito in Israele da Roma dopo la conclusione del conflitto, nella sua semplice abitazione nel kibbutz di Sde Eliyahu, nella valle del Giordano, non lontano da Beit She’an. Assieme hanno dedicato una vita di lavoro, di studio e di fatica, alla costruzione del sionismo socialista e religioso e le grandi storie da raccontare non mancano. Ma non è il momento e la memoria ritorna a quegli attimi decisivi e alla decisione felice di non subire, di opporsi alla dittatura. “Ero già parte attiva e consapevole dei movimenti giovanili ebraici – racconta Nurith – ma la prima volta che mi sono posta davvero delle domande sul mio destino è stato forse allora. È allora che sono divenuta sionista e che sono divenuta un’ebrea religiosa. Volevamo sapere che cos’era questo ebraismo per il quale venivamo perseguitati. Qual è il suo contenuto, il suo messaggio, il suo insegnamento. Che cosa ci volevano rubare, che cosa ci volevano proibire. Mi sono imbarcata con moltissimi altri giovani, tanti giungevano a Trieste dal Centro Europa proprio per salire sulle navi che portavano in Palestina e la città prendeva non a caso il nome di Porta di Sion. Per noi, che sulla riva del mare eravamo già, è stato forse ancora più semplice, grazie all’organizzazione Aliyat Hano’ar che aiutava i giovani a raggiungere Israele. Forse ero un poco spaventata, dal viaggio, dalla lontananza, dalla mia mancanza di preparazione e di conoscenze. Non sapevo l’ebraico e non conoscevo un mestiere. La prima lezione di Israele è stata quella di imparare a parlare con tutti. Nel centro di accoglienza Ahava a Kiriat Bialik c’erano molti ragazzi tedeschi e altri che erano riusciti a salvarsi. Eravamo diversi per origini, formazione culturale, maniera di vedere la vita. Ma gli ideali di Israele ci hanno tenuti assieme, ci hanno aiutato ad accettarci vicendevolmente. Era una scuola religiosa, ma non bigotta e lasciava la gente libera di scegliere secondo la propria coscienza. Abbiamo avuto insegnanti straordinari”. Un riparo dorato mentre il mondo andava in fiamme? “Fino a un certo punto – prosegue Nurith – perché presto è venuto il momento di fare le proprie scelte e ognuno è stato libero di prendere la strada che considerava più giusta. Per questo motivo ho scelto il kibbutz e, fra i tanti, un kibbutz religioso e un kibbutz allora molto giovane. Nel nome del rabbino tedesco Eliyahu Gutmacher (1796- 1875), un precursone del sionismo religioso, tanti giovani si erano riuniti attorno all’idea di costruire un villaggio socialista nella valle del Giordano. Ci sono arrivata nel 1941 e da allora, anche se tante cose nel mondo sono avvenute e cambiate, la mia vita si è svolta qui”. La memoria sgorga viva e trova rispondenza nelle testimonianze. Solo pochi giorni dopo il suo arrivo Nurith aveva scritto una lettera ai responsabili della rete italiana dell’ Aliyat Hano’ar, se ne trova traccia in un’altra lettera del novembre 1939 che Franca Muggia rivolge a Marcello Savaldi: “(…) Ho ricevuto una lettera dalla Nora Ravenna con le impressioni della prima settimana di vita alla Ahava. Mi racconta che hanno avuto grandiose accoglienze, che l’ambiente è molto bello, fino ad ora hanno fatto gite, se la sono goduta, ma ancora ovviamente non avevano cominciato della scuola. Si lamenta dei suoi compagni, che non sentono la responsabilità di far parte del primo gruppo di italiani e si comportano male, cioè sono maleducati e indisciplinati. Forse lei li pretenderebbe veramente ragazzi modello, invece che ragazzi normali, ma può anche darsi che sentendosi liberi da tanti legami credano di potersi sfogare al massimo…”.
Guido Vitale, Pagine Ebraiche, Novembre 2013
(14 giugno 2020)