Il futuro che ci manca

Il rapporto ossessivo, che adesso si fa vandalico, comunque prevaricatorio, censorio e quindi distruttivo, con alcuni simboli del passato, a partire dalle statue passando per le pellicole cinematografiche, esercitandosi poi sul linguaggio (sui libri, si può stare certi, che qualcuno, prima o poi avrà qualcosa da dire, evocando il furore popolare per le ingiustizie del presente richiamando gli oggetti che rimandano ai trascorsi) non esprime un qualche bisogno di riparazione per ciò che è stato ma l’impotenza per quanto viviamo. Non ci interessa “rimettere al loro posto” le cose che furono – sarebbe peraltro impossibile – ma trovare qualcosa di inerte contro cui scagliare la nostra rabbia. Inerte, nel senso di immobile poiché non è soggetto animato ma un oggetto indifferente, puro simbolismo. D’altro canto, se c’è qualcosa che ci fa mobilitare e furoreggiare è proprio la materia che raffigura l’obbrobrio; più ancora degli individui, dei fatti e degli atti che ne sono invece parte integrante, quindi effettiva, colpevole, comunque partecipe. Tutto ciò, nel mezzo di un’inflazione di immagini rabbiose, non ci restituisce il senso di una coscienza maturata ma, piuttosto, un annebbiamento sopravvenuto. Come se una sorta di cortina fumogena si spargesse intorno a noi, quasi a volerci dire che il vero tempo che ci manca non è quello compiuto ma quello che deve ancora compiersi. In cuore nostro, non ci si infuria per ciò che fu ma per quello che non potrebbe essere. Ed anche per questo, essendo il futuro quella dimensione temporale che, per definizione, non può essere ipotecata se non attraverso l’unico strumento che al momento abbiamo a disposizione, ovvero il debito finanziario e generazionale, nel momento in cui il principio speranza (la fiducia in un qualcosa a venire che potremo noi stessi consapevolmente costruire) declina, ci rivolgiamo con ira contro ciò che pensiamo possa costituire un freno a ciò. Ovvero, le vestigia di trascorsi che – ora – ci diciamo essere stati caratterizzati dalle nequizie della sopraffazione, della persecuzione, della privazione, della depravazione. Non potendo condizionare ciò che crediamo non potrà per davvero avvenire, sentendoci quindi espropriati, cerchiamo allora di esorcizzare le nostre paure gettandole all’indietro. Non “gettiamo il cuore oltre l’ostacolo”, come direbbe qualcuno; semmai gettiamo i cattivi pensieri contro ciò che fingiamo possa costituire un vincolo. Nessun giudizio al riguardo, se non la cognizione della fame di futuro che ci accompagna ma che temiamo, essa stessa, di riconoscere come tale.

Claudio Vercelli

(14 giugno 2020)