Controvento
Una mitzvah per la musica

La settimana scorsa la rete americana CBS ha riproposto la puntata di “60 Minutes” (una delle più prestigiose testate giornalistiche al mondo) dedicata a Francesco Lotoro, che era stata trasmessa la prima volta il 15 dicembre dell’anno scorso. Consiglio a chi non l’avesse ancora vista di guardarla (qui).
Con la concisione e la capacità di divulgazione di alta qualità tipica del mondo anglosassone, la missione di Francesco Lotoro, ben noto a chi legge queste pagine, viene fatta vivere toccando le corde più profonde dell’emozione anche per chi, come me, conosce bene e ha lavorato con lui. Il musicista pugliese, fin da giovanissimo, si è dato il compito di cercare, trascrivere, digitalizzare a far rivivere la musica scritta nei lager nazisti e, più in generale, nei campi di internamento legati alla seconda guerra mondiale, in Europa, in Asia, in Africa, ma anche nell’Unione Sovietica.
La passione di Lotoro, un furore che non gli dà tregua – ha dedicato l’intero periodo del Covid per lavorare incessantemente al suo archivio – lo porta da trent’anni a girare il mondo per cercare i sopravvissuti e i loro famigliari nella speranza di trovare qualche manoscritto, o qualche memoria musicale inedita per restituirla alla vita e alla storia della musica. Una mitzvah il cui valore non è solo storico, ma anche etico e spirituale perché restituisce alle vittime la voce e l’identità. E soprattutto il ricordo. Il lavoro di Francesco è un Kaddish per i musicisti strappati all’oblio.
Ho conosciuto Francesco Lotoro nel 2014, subito dopo il primo concerto per il Giorno della Memoria, “I Violini della speranza”, che avevo organizzato insieme a Marilena Citelli Francese, mia partner in tutto il progetto della Memoria.
Marco Visalberghi, regista e amico di famiglia, che aveva assistito al concerto (dedicato ai violini sopravvissuti ai campi di sterminio) mi chiese se ero disponibile ad aiutarlo a realizzare un documentario su un personaggio che dedicava la vita alla musica scritta nei campi di concentramento, allora poco conosciuto in Italia, ma già apprezzato all’estero (la Francia gli aveva conferito nel 2013 la Légion d’Honneur). Avevo deciso che non avrei organizzato “mai e poi mai” un secondo concerto della Memoria (il primo era stato una corsa a ostacoli fino al momento di andare in scena) Ma la storia che mi raccontò Visalberghi era talmente straordinaria che la mia decisione si sciolse come neve al sole appena ebbi l’occasione di conoscere Francesco. Insieme abbiamo realizzato cinque concerti: “Tutto ciò che mi resta” all’Auditorium Parco della Musica di Roma nel 2015, trasmesso in diretta dalla Rai, poi portato a Bruxelles, “Songs for Eternity” nel 2016 con Ute Lemper andato in scena a New York e poi a Mantova e al PIccolo Teatro di Milano, e infine “Libero è il mio canto” sempre all’Auditorium Parco della Musica di Roma nel 2019.
Sono state esperienze che mi hanno segnata profondamente e di cui sono grata a Francesco. Lotoro non è una persona facile e spesso la mia visione di “spettacolo in scena” si è scontrata con la sua purezza da filologo e con la sua idea di “sacralità” dello spartito. Ma credo siano stati scontri che ci hanno arricchiti, o almeno, hanno arricchito me. Francesco è, tra le persone che ho conosciuto, quella che più somiglia a un monaco medioevale. Vive di nulla, non gli interessano i beni materiali, credo che se potesse si nutrirebbe di pillole e andrebbe in giro con i sandali, come i carmelitani scalzi. Ha l’intransigenza di chi è guidato da una voce interiore (la sua, è un pentagramma). E porta avanti senza tentennamenti e senza paure il suo sogno di costruire una cattedrale immensa e meravigliosa, pietra su pietra, o meglio spartito su spartito. I sogni si realizzano solo se non si ha timore di sognare e non si accettano i limiti della nostra finitezza umana. Il monaco ebreo Lotoro (che grazie al suo lavoro ha scoperto a dentro di sé la fascinazione dell’ebraismo e si è convertito, o meglio, come ama dire, è ritornato a radici che sentiva di avere) la sua cattedrale la sta costruendo sul serio. E’ la Cittadella della Musica Concentrazionaria, archivio, museo, centro di documentazione, sala concerti, scuola, che sta edificando a Barletta, la città che gli ha dato i natali e alla quale ha donato il patrimonio della Fondazione Istituto di Letteratura Musicale concentrazionaria (ILMC), fatto di ventimila documenti, registrazioni manoscritti, spartiti, raccolti in vent’anni di ricerca, e dei quali si è spogliato, perché non vuole possedere nulla, perché la musica rinata dalle ceneri del genocidio deve appartenere al mondo, non a lui.
Aiutare Francesco a realizzare la sua cattedrale credo si a un dovere per chiunque ritenga che creare arte e bellezza sull’abisso della tragedia sia una delle manifestazioni più straordinarie della forza dell’animo umano, di quella scintilla del divino che è dentro ciascuno di noi.
Le donazioni posso essere fatte online (Per ulteriori informazioni, www.fondazioneilmc.it).