Una battaglia pretestuosa

Anche le statue non sono verità assolute. Ognuna appartiene al suo tempo, ognuna, dal tempo, viene contestata.
I monumenti celebrativi a Cristoforo Colombo furono eretti per celebrare la scoperta di un nuovo continente, fissavano un significato certamente politico: volevano segnare il progresso dell’umanità – in effetti dell’economia, della potenza e della cultura occidentali – verso la conoscenza di sé e del proprio mondo. Poca importanza si attribuiva, al tempo, ai soprusi, alle cancellazioni di identità, alla distruzione di intere popolazioni indigene che la colonizzazione aveva e avrebbe comportato per quel mondo acquisito al possesso dell’Occidente. Le prospettive della storia sono sempre cangevoli. E per fortuna è così. Abbattere ora la statua di Colombo sarebbe abbattere una prospettiva storica consolidata, modificata tuttavia nella coscienza della modernità dalla nuova visione che abbiamo tutti acquisito sui significati e sulle implicazioni di quella fondamentale eppur tristissima espropriazione di territorio e di identità. Oggi, per noi, la statua di Colombo è il monumento al grande navigatore e scopritore, ma anche alle conseguenze nefaste di ogni ‘scoperta’ che implichi occupazione di un territorio. Il progresso ha il suo costo. Il mio progresso avviene spesso a spese di qualcun altro. Di tutto ciò siamo oggi consapevoli, anche se ci sarà sempre chi parteggia per il Colombo scopritore e chi per i poveri nativi spossessati e massacrati. E vi sarà sempre chi giustificherà i mezzi in grazia del fine raggiunto, un fine che è eufemistico sinonimo di ‘interesse’.
La figura di Colombo, alla fine, è storicizzata. Non occorre litigarci troppo sopra per mettersi d’accordo. Chi oggi chiede di tagliarle la testa fa polemica pretestuosa su un evento storico che ha cambiato la storia del mondo pretendendo di caricarla di significati moderni – i diritti delle popolazioni autoctone e delle minoranze, le prevaricazioni del potere – significati validissimi, che sono tuttavia attualizzazioni deformanti di una coscienza storica del passato.
Pensiamo però, ora, come caso limite, che qualcuno avesse fatto un monumento a Hitler. Nessuno – a parte qualche sovranista razzista fuori di senno – riconoscerebbe giustificabile un monumento alla disumanità pura. Hitler non rappresenta valori positivi per l’umanità, non è quindi meritevole di monumento.
Vi sono però molti stadi intermedi, in cui il monumento assume, più che mai, valenza ideologica. Un monumento a Stalin o a Mao Tse-Tung, ad esempio, che per certa politica costituiscono ancora un riferimento, a dispetto dei crimini e delle stragi che la loro politica ha comportato. D’altro canto, ad Affile si è eretto un mausoleo al gerarca fascista, Rodolfo Graziani, sterminatore di etiopi. Evidentemente, il fascismo riconosce in lui un eroe della colonizzazione e dello sterminio di popolazioni indigene inermi. Nel suo caso, la coscienza locale (di Affile) non ha elaborato le sue responsabilità e ritiene di dover ancora onorare un criminale di guerra, un massacratore di innocenti.
Di fronte a casi del genere, il problema della statua di Indro Montanelli appare davvero irrisorio. E lo si dice tutt’altro che per sminuire la figura squallida del giovane fascista stupratore di una dodicenne eritrea. Ridicolo, o tragico, è leggere tanta carta stampata, e tanto meno illustre pensiero social, in difesa d’ufficio di un venticinquenne italiano che, forte della sua condizione di colonizzatore in divisa, sfoga le sue pulsioni ricorrendo allo sfruttamento sessuale minorile. Si è contestualizzata la storia non troppo passata del giovane Montanelli come se si trattasse di storia acquisita alla coscienza dell’umanità, un novello, discutibile, Cristoforo Colombo. Come se nel 1936 il giudizio sullo sfruttamento minorile fosse diverso da quello che daremmo oggi, come se quello che sarebbe poi divenuto famoso giornalista, fustigatore di pensiero e costumi, non potesse avere, in gioventù, consapevolezza del proprio orrore. Un orrore perpetuato, poi, dal fatto che mai nel racconto Montanelli abbia dato segno di un minimo ‘disagio’ di fronte alla propria aberrazione. Ridicolo giustificare il tutto con il cambiamento dei tempi e della sensibilità. Montanelli non è né Colombo né Churchill.
Si è scritto che Montanelli è stato un grande giornalista. Enzo Biagi lo è stato di più, con ben altro grado di spirito umanitario, eppure non risulta che gli sia stata eretta una statua. Montanelli è stato giornalista di parte, sempre su posizioni di conservazione. Il fatto che abbia difeso le ragioni di Israele non basta a fare di lui un eroe, stimolo alla coscienza umanitaria. Si è anche scritto che Montanelli merita la statua perché fu gambizzato dalle Brigate Rosse. Non risulta che a molti altri gambizzati o ‘giustiziati’ dal terrorismo siano state dedicate statue. Giornalisti che hanno messo a repentaglio la loro vita, e con la vita hanno pagato, per le loro posizioni coraggiose indeflettibili, nei riguardi di mafia e criminalità organizzata. Franca Rame, torturata e stuprata da fascisti di stato, non ha avuto un monumento. Ed è bene così: crediamo che le statue vadano erette in memoria di chi ha dato un contributo di umanità e progresso alla storia. Montanelli ha semplicemente rappresentato se stesso e le proprie idee, il proprio spirito libero, come si usa dire, alla stregua di ogni altro giornalista. Forse con un grado di ironia più spiccato della generalità dei giornalisti.
E, tuttavia, la battaglia alla statua di Montanelli appare pretestuosa almeno tanto quanto pretestuosa e superflua è stata la sua erezione. Rimanga pure dunque, come memento alla superfluità di tanti monumenti, che segnano soltanto lo spirito partigiano dei loro ispiratori e dell’epoca in cui hanno vissuto e operato. Ma non si dimentichi, assieme a una gambizzazione subita, uno stupro perpetrato. Le verità, come sempre, non si annullano a vicenda.
E c’è un’ultima verità, allora, che emerge da tanta attenzione rivolta alla statua di Montanelli. La decapitazione e l’abbattimento dei monumenti hanno preso l’avvio dalla contestazione alle statue di passati sfruttatori schiavisti in giro per l’Europa, il tutto come reazione all’assassinio del nero George Floyd da parte di un poliziotto di Minneapolis. L’omicidio, giustamente, ha riportato all’attenzione il razzismo diffuso di cui l’America non riesce a liberarsi. Ora, non si vorrebbe che l’iconoclastia antirazzista si risolvesse in una distrazione dal problema principale, il razzismo di oggi messo in disparte da episodi più o meno rilevanti della storia, talora anche privata, di ieri.
Le verità sono molte, spesso confliggenti, sempre coesistenti, anche nella loro frequente, immancabile, contraddizione.

Dario Calimani, Università di Venezia

(16 giugno 2020)