Ticketless – Il comico ebraico

Il mio Ticketless su Chaplin ha suscitato attenzione: mi sono arrivati molti messaggi. Una mia frase infelice però ha generato due equivoci, che desidero chiarire: “Negli anni Trenta sorse una interessante discussione intorno a Chaplin e al comico ebraico”. Come si comprende dalle parole successive, alludevo al tema del comico ebraico non al fatto che Chaplin fosse ebreo. Non si è mai abbastanza chiari. Secondo equivoco. Se anche così fosse stato, cioè se avessi voluto dire che Chaplin era ebreo avrei dovuto scrivere il comico “ebreo”, non “ebraico”, cioè non avrei dovuto confondere aggettivo e sostantivo aggettivante come fanno in molti. L’altra sera, tanto per dire, il sempre bravissimo, anzi incantevole Renzo Arbore ha presentato Danny Kaye, “grande comico ebraico”. Sono interessanti entrambe le questioni. Vale la pena dedicarvi qualche riga.
Sulle origini ebraiche di Chaplin esiste una buona letteratura. I biografi non hanno fatto mai piena luce sull’infanzia infelice di lui e del fratello Sidney in quartieri londinesi dove era diffuso il profilo dell’ebreo reietto e povero nell’Inghilterra vittoriana. La febbre dell’oro (1925) alimentò la leggenda, rafforzata dal personaggio del senza patria, che dorme in una tenda, diverso fra i diversi. Negli anni Trenta nell’equivoco caddero critici illustri, da Sergio Solmi, dai solariani a Giacomo Debenedetti, allo stesso Gadda. Stesso scivolamento capitò con Joyce per aver creato Leopold Bloom, l’Ulisse ebreo e in parte anche con Proust e i personaggi della recherche. Zeno Cosini fu presto paragonato a Chaplin, ma Hector Aron Schmitz se non altro era ebreo davvero. Il guaio è che da una premessa onestamente estetica (sempre sussiste in letteratura un legame fra personaggio-uomo e personaggio-autore, fra scrittura e autobiografia) il Duce favorì un brutale passaggio allo stereotipo politico. Chaplin, Joyce, Proust e anche chi li amò come Montale finirono nella lista nera dei perfidi giudei accanto al barone Rothschild, al corruttore delle coscienze Freud, ai pittori degenerati, ai musicisti d’avanguardia. Dimmi che amici hai e ti dirò chi sei. Fu così per esempio che ebrei furono considerati i fratelli De Chirico, rei di aver frequentato i mercanti ebrei parigini. Con Chaplin le cose non finirono lì, anzi peggiorarono dopo che interpretò la figura del barbiere ebreo nel Grande dittatore. E la faccenda proseguì in pieno maccartismo, dopo Tempi moderni. Se la memoria non m’inganna l’intelligence britannica su incarico dell’Fbi provò che Chaplin fosse in realtà un ebreo russo di nome Israel Thorstein. Erano tempi di caccia alle streghe, lo so, ma gli 007 britannici non sono degli sprovveduti.
Sul guaio dell’aggettivo “ebreo” confuso con “ebraico”, lo so bene, c’è grande confusione. Molti miei amici sono irritabili, sostengono che le parole sono pietre e l’errore nasconde un’intenzione malevola anche i bocca a chi cerca di farci sorridere. A me non disturba sentire dire che Danny Kaye sia un “comico ebraico”, tanto più se a dirlo è un grande ingegno come Arbore, che tante volte mi ha tirato su il morale (anche in queste serate tristi). L’italiano è una lingua difficile, lo sa bene chi cerca d’impararlo. L’inglese e il tedesco non hanno di queste sottigliezze. Se Danny Kaye fosse stato cattolico, protestante, musulmano o buddista non vi sarebbe possibilità di equivoco, ma così non è, per nostra fortuna.

Alberto Cavaglion