Quel perverso bisogno d’ideologia
Quando sullo schermo della tv è apparsa l’immagine della statua di Cristoforo Colombo rovesciata e gettata a terra a Boston mentre intorno un gruppo di poveri dementi travestiti da pellerossa (pardon, da nativi americani) eseguivano una danza lanciando grida di trionfo mi ha assalito un grande sconforto e mi ha abbandonato ogni voglia di riflettere e di commentare. Ma poi ha preso il sopravvento l’abitudine a cercare di capire anche i fenomeni più aberranti.
Molte cose sono state scritte su questa ondata di follia iconoclasta che, partita dagli Stati Uniti, ha invaso l’Europa e ha toccato anche l’Italia. Molte cose giuste, che non sto a ripetere. Ma c’è un aspetto che già altri hanno messo in evidenza e che voglio ancora sottolineare: questi iconoclasti non sembrano avere – simili in questo ai fondamentalisti islamici – il senso del tempo e quindi della storia. Al posto di questa assenza, c’è invece, ben forte e presente, un perverso bisogno d’ideologia. Cercherò di spiegarmi.
In una situazione rivoluzionaria, quando viene abbattuto un regime oppressivo o alla fine di una guerra che ha rovesciato un dittatore, lo scatenarsi della violenza popolare contro i simboli del regime caduto è un fatto fisiologico: dura qualche giorno, dopo di che un nuovo regime si afferma, i simboli del vecchio che sono stati abbattuti dalla furia popolare vengono rimossi e si afferma una nuova simbologia. Tutto ciò avviene in presenza di regimi oppressivi mentre non avviene, perché non ne esiste la ragione, nei sistemi democratici dove il trapasso da un governo all’altro avviene in forme pacifiche, regolate dalle Costituzioni degli Stati.
La vicinanza temporale dei simboli tra il momento in cui sono stati eretti e le vicende del tempo presente è ciò che giustifica o comunque permette di comprendere l’atto anche il più distruttivo. Quello che è incomprensibile – e frutto perciò di un atteggiamento ideologico costruito a freddo – è l’accanirsi contro simboli di regimi politici o di sistemi sociali che non esistono più, magari da secoli.
È questo che rende inaccettabile la furia iconoclasta contro simboli che ormai sono entrati a far parte della storia, che non hanno più alcuna incidenza su quanto accade oggi. Qualunque fosse la carica simbolica che certe statue avevano al momento della loro erezione, il tempo l’ha depotenziata. Oggi il significato di certi simboli non è più compreso, in certi casi si è addirittura rovesciato. Il caso della statua di Cristoforo Colombo è esemplare: a nessuno (eccetto chi è imbevuto di pregiudizi ideologici costruiti a tavolino) viene in mente di collegare i viaggi del navigatore genovese alla ricerca di una via commerciale più breve verso l’Oriente passando da Occidente con la “conquista del West”, con il mito della “frontiera americana” o con le “guerre indiane”, fenomeni che appartengono al XIX secolo, cioè circa tre secoli e mezzo dopo quella che, con espressione eurocentrica, chiamiamo la “scoperta dell’America”, con l’aggiunta che dagli eventi ricordati ai nostri giorni è trascorso un altro secolo e mezzo. Sono questi cortocircuiti che rendono inaccettabili e anacronistiche (nel senso etimologico della parola) le gesta iconoclastiche di chi crede di cancellare il corso della storia con alcuni gesti violenti che, naturalmente, non cambiano la storia e nemmeno incidono sul tempo presente, e causano invece legittime reazioni che nuocciono anziché favorire la causa che a parole dicono di voler difendere.
C’è ancora da prendere in considerazione l’origine di questi atteggiamenti, l’origine di una riviviscenza iconoclastica più di un millennio dopo quella promossa a Bisanzio da Leone III Isaurico e ripresa in età contemporanea solo dai più estremisti degli integralisti islamici, i combattenti del Daesh.
Ho scritto all’inizio che questo fenomeno è partito dagli Stati Uniti per poi rovesciarsi sull’Europa ma mi devo correggere. Se si guarda agli episodi più clamorosi è avvenuto così, ma se di questo estremismo contemporaneo si vogliono comprendere le radici ideologiche bisogna scavare più in profondità, bisogna fare il cammino inverso. È stato nelle più prestigiose Università inglesi, a Oxford e a Cambridge, sulle ceneri di un marxismo ormai sconfitto dalla storia e in via di dissoluzione (anche se proprio in Gran Bretagna con Jeremy Corbin ha celebrato gli ultimi suoi trionfi seguiti dal crollo clamoroso e dal ritorno del Partito Laburista al suo tradizionale pragmatismo) che è stata costruita a freddo una formulazione ideologica che vedeva nel razzismo – e non più nel capitalismo – il nuovo feticcio da abbattere, ciò che caratterizza l’odiata civiltà occidentale, e contro cui indirizzare le lotte non più dei proletari ormai integrati ma dei neri d’America e degli immigrati nei Paesi europei.
Se in Europa la nuova costruzione ideologica ha incontrato un relativo successo, è nei campus delle Università americane che ha trovato il terreno fertile dove prosperare. Si ripete così, a distanza di mezzo secolo, il fenomeno del ’68 americano, dove le astrattezze di alcune teorie provenienti dalla Scuola di Francoforte e diffuse in America, in particolare nella versione semplificata elaborata da Herbert Marcuse, innescarono un movimento che ebbe vaste anche se effimere proporzioni. Già allora fu tentato il collegamento con le posizioni più estremistiche presenti nel movimento degli afroamericani, ma l’egemonia esercitata su quel movimento dalle posizioni moderate espresse da Martin Luther King incanalarono la protesta degli afroamericani lungo percorsi legalitari che consentirono la conquista di importanti diritti. La conquista della parità dei diritti civili, ottenuta con le lotte degli anni ’60, fu resa effettiva nei decenni successivi ed entrò a far parte del costume, oltre che della legislazione, degli Stati Uniti.
Niente di assolutamente nuovo, perciò, nel movimento che ha preso a bersaglio le immagini delle figure più rappresentative della nostra civiltà. L’assenza di comprensione della storia è presente oggi come lo era nel ‘68. Prendersela con la statua di Churchill vuol dire buttare nella pattumiera l’esempio più alto di resistenza a uno dei grandi mali del XX secolo, il nazismo. Ma, come nel ’68, la caratteristica del movimento è un’esasperata semplificazione; una semplificazione che però coglie alcuni elementi essenziali: gli iconoclasti del nostro tempo hanno capito che, se si vuol individuare un nemico che simboleggi la società che si vuol colpire, esso non può essere più, come nel ’68, il capitalismo: come tutti hanno capito, il capitalismo genera benessere. Genera anche contraddizioni, genera anche maggiori disuguaglianze; ma chi ha detto che alla maggior parte degli uomini interessi più l’uguaglianza rispetto al benessere?
Il razzismo diventa così non quello che è, cioè la presenza nella società americana (e non solo) di aspetti discriminatori che vanno combattuti giorno per giorno nella loro realtà (come, in particolare, l’abitudine all’uso della violenza di una parte delle polizie locali americane). Diventa, o meglio, lo si vorrebbe far diventare, il segno distintivo di tutta la società occidentale.
Contro questo bisogno perverso di ideologia non c’è che un rimedio: combattere le discriminazioni razziali che ancora sono presenti nella società americana come anche in quella europea; combattere al tempo stesso con fermezza questi tentativi di mettere sotto processo, anzi, in prospettiva, di distruggere tutta la nostra civiltà.
Valentino Baldacci
(18 giugno 2020)