Il “cilindro”

C’è da chiedersi quanto tempo ancora durerà la polemica sulla statua milanese dedicata ad Indro Montanelli. Come molte delle cose del nostro tempo, poiché viaggia per non poca parte sui social network, dopo una grande fiammata iniziale, in plausibilità si attenuerà per poi essere archiviata. Insieme ad altre vicende divisive che si sono susseguite nel corso del tempo. Ovvero, ad altre ancora che, prevedibilmente, seguiranno. (Per un momento – abbiate la cortesia di merito – sospendiamo la polemica sulla persona che è stata, anche, un personaggio pubblico.) Mentre non finiranno, se ne può stare certi, gli esercizi di ricostruzione della memoria storica (cosa diversa dalla storia in quanto tale) contro i simboli pietrificati del passato. Tanto più odiati, forse, proprio perché sembrano per l’appunto monumentalizzare – e quindi cristallizzare sul piano della “versione istituzionale”, quella pubblica, come tale opinabile a prescindere – i trascorsi, senza permettere altra manifestazione che non sia l’adesione o il rifiuto privi di un argomentato spunto critico. Il destino delle statue, nella storia dell’umanità, è spesso stato questo. Guai a chi viene monumentalizzato! Solo di passata, basti pensare a quelle dedicate a Mussolini (i busti, soprattutto), oppure a Saddam Hussein (chi non esultò dinanzi alle immagini in diretta, nel 2003, a Bagdad o giù di lì, quando una delle tante sculture dedicate al dittatore fu abbattuta, nel tripudio degli astanti?) o, ancora, di Muammar Gheddafi. Salvo poi riconoscere che sì, a modo loro, una qualche funzione di equilibrio pur l’avevano esercitata. L’equilibrio non è – in sé – né buono né giusto. Semplicemente, è una condizione delle relazioni tra una molteplicità di individui in un dato momento. Quindi, il divellere, il vandalizzare, in sostanza il manifestare un radicale mutamento di giudizio collettivo sulle cose trascorse attraverso dei gesti plateali, tanto più quand’essi sono raccolti e condensati nella figura di un loro eminente esponente, distruggendo o violandone l’immagine immortalata nella pietra, nel marmo, nel bronzo se non addirittura in legno o in cos’altro, non è certo prerogativa di un solo tempo e di un unico regime. Il fatto che ciò accada in quella porzione del mondo che continuiamo a chiamare «Occidente», ha tuttavia un impatto a sé, in quanto non avviene in luoghi, paesi (e tempi) dove l’immagine ha una valenza rigorosamente idolatrica, quindi destinata a rafforzare un legame di acritica dipendenza da un potere incarnato in una figura che si fa quasi sostanza eterea, una sorta di entità astorica (come i dittatori, per l’appunto), bensì in comunità nazionali dove il presupposto nel rapporto tra i tanti è invece la tutela della diversità. Di opinione come di giudizio, di identità come di relazioni, di scambi come di rapporti. Trascorsi e presenti. I paesi a sviluppo avanzato si pensano come entità pluraliste, ossia società nelle quali coesistono – al medesimo tempo – posizione anche molto diverse rispetto ai medesimi temi di fondo. Non a caso, ogni società pluralista riconosce la necessità della coesistenza di opinioni differenti, se non conflittuali. Quindi, si dispone a negoziare e mediare il bisogno di non dotarsi di un’unica visione monolitica sul passato. Quand’anche, come spesso capita, ciò apra un conflitto enorme sul limite che intercorre tra legittima opinione, ancorché radicale, e diffamazione, una sorta di cono d’ombra sul quale ci si interroga costantemente poiché non è dato sapere, a priori, dove il varco del Rubicone si situi. L’indeterminatezza che accompagna le società libere non è mai un segno di debolezza. Semmai, esprime la loro forza, poiché esse ci dicono che sono (ovvero: siamo) all’eterna ricerca del senso da attribuire il passato e, con esso, al presente che ci appartiene. Cosa c’entra tutto ciò con la statua di Montanelli? Forse poco, oppure molto. Ognuno si dia una propria ragione. Ma, soprattutto, abbia il coraggio di difenderla e, quindi, di argomentarla. Qui sta la democrazia. Che non riposa su posizioni precostituite, ripetute come verità incontrovertibili, ma sulla ricerca di se stessi nel fluire del tempo. Anche questo è ciò che chiamiamo con la parola «identità»: non una essenza cristallizzata, che non esiste, ma la capacità di raccontarsi per come si cambia. Insieme agli altri.

Claudio Vercelli