Periscopio
Nell’interesse d’Israele

Nello scorso Periscopio anticipai che, nel mio pezzo odierno, avrei motivato le mie argomentazioni contrarie all’annessione degli insediamenti ebraici nella West Bank. Prima di farlo, però, intendo spendere tre argomenti che mi distinguono dalla grande quantità degli oppositori, e che dovrebbero portarmi, se isolatamente considerati, a essere anch’io favorevole.
Primo. I politici vanno sempre apprezzati quando mantengono la parola data, cosa non tanto frequente. Netanyahu aveva inserito questo punto nel suo programma, Israele è una democrazia, e il popolo ha votato. Qualche problema, se mai, dovrebbe averlo Gantz.
Secondo. Non è vero che la mossa allontana la pace con i palestinesi, non si può allontanare un chimera, che è lontana per natura.
Terzo. Ci sono decine di migliaia di cittadini di Israele che, da ormai più generazioni, vivono pacificamente in quei luoghi, e vedono la loro situazione giuridica in eterna sospensione Sono israeliani, ma non vivono in Israele, né – come dovrebbe essere del tutto normale – in un altro Paese, che garantisca loro diritti e sicurezza. Queste persone desiderano una normalizzazione della loro situazione, e vanno comprese.
Ciò nonostante, resto contrario, per le seguenti ragioni.
Sergio Della Pergola, in una interessante videoconferenza tenuta lo scorso 3 giugno, illustrò, da par suo, quali sarebbero gli equilibri demografici tra ebrei e arabi della popolazione israeliana nei vari futuribili scenari. Attualmente la proporzione è di un 80 % di ebrei e un 20 % di arabi: quella araba è una minoranza di grande rilievo, ma pur sempre una minoranza, e Israele può conservare, sia pur con delle difficoltà, la sua natura di Stato ebraico e democratico. Ove mai Israele annettesse tutti i territori palestinesi (Gaza e Cisgiordania), il rapporto passerebbe a 50 e 50, e Israele non poterebbe più continuare a esser contemporaneamente un Paese ebraico e democratico. Ma anche se l’annessione riguardasse solo tutta la West Bank il rapporto non sarebbe sopportabile, perché ci sarebbe una percentuale di arabi del 40 %, tale da non potere essere più definita una “minoranza”.
Da decenni innumerevoli tentativi di negoziati di pace (quasi sempre fatti per finta, senza un minimo di buona fede) cercano pertanto di prefigurare la famosa soluzione di “due popoli per due stati”, basata su uno scambio reciproco di territori: Israele annetterebbe alcuni tra i più importanti insediamenti, e in cambio cederebbe qualcosa alla controparte, per esempio alcune zone abitate solo da arabi. Solo che questi arabi non hanno la minima voglia di passare in Palestina e, comunque, anche le pietre sanno benissimo ormai che questo accordo non ci sarà mai. Tutti fanno finta di dimenticare quali sono le condizioni poste dai palestinesi: a loro tutta Gerusalemme (parole testuali di Abu Mazen: la capitale della Palestina “non è a Gerusalemme”, “è Gerusalemme”), ritorno in Israele (giammai in Palestina!) di almeno cinque milioni di “profughi” (ma forse, da ieri sera, saranno diventati sei…) ecc. ecc. È comodo fare finta di dimenticare tutto ciò, certo, così la soluzione sembra un giochetto per ragazzi: due popoli per due stati, mezzo a te e mezzo a me e il gioco è fatto.
Di fronte a questa situazione, Netanyahu ha quindi pensato di fare, appunto, una mossa unilaterale, annettendo chirurgicamente solo le parti della West Bank con gli insediamenti più popolosi in modo che l’equilibrio resti, più o meno, quello attuale, 80 e 20 (forse con qualche leggero aumento della percentuale araba). In pratica, un punto di arrivo di un ipotetico piano di pace, senza pagare nessun prezzo e senza nessuna controparte.
Un gesto comprensibile, che solleva però una domanda: a che serve?
Non aumenterà di un minimo la sicurezza degli abitanti di quelle terre, che dovrà continuare, come sempre, a essere affidata all’esercito, e metterà in difficoltà quei Paesi arabi moderati (come Arabia Saudita, Giordania ed Egitto) che, sia pure tacitamente, o sottovoce, appaiono comunque interessati a un mantenimento dello status quo e a una collaborazione “de facto” con Israele, contano sull’appoggio dell’America e, al di là delle retorica verbale, non hanno intenzioni aggressive contro lo Stato ebraico, in quanto preoccupati delle mire espansioniste, egemoniche e militari di stati come Iran, Turchia e Siria. Converrebbe che questi Paesi vedano le loro piazze riempirsi di manifestanti antisionisti? L’obiettivo principale di Israele, a lungo termine, seconde me, dovrebbe esser quello di evitare a ogni costo ogni saldatura del fronte pan-islamico, di nasseriana memoria, favorendo in ogni modo l’isolamento internazionale dei regimi terroristici, antisemiti e radicali, e agevolando la cooperazione tra Paesi arabi moderati e Stati Uniti. Questi sono, a lungo periodo, i veri interessi di Israele. Il governo ha preferito pensare ad assecondare i desideri di una determinata frangia dell’elettorato interno, trascurando di pensare al futuro. Una scelta, secondo me, non lungimirante.
Ma ci tengo a precisare che le mie riserve sono di opportunità, e non di tipo morale, che rispetto questa decisione, in quanto legittima valutazione di un governo democratico, così come rispetterò le eventuali pronunce in merito della Corte Suprema, nella quale nutro la più completa fiducia. E, se devo condannare qualcuno, condanno non certo Israele, ma i suoi condannatori, tra cui, per esempio, l’ANPI, che pare avere definitivamente perso per strada i sacri valori della Resistenza.

Francesco Lucrezi