L’intervista a Deborah Feldman
“Unorthodox, ecco come è nato tutto”

“Ho 33 anni, sono nata nel 1986 a New York, sono cresciuta nella comunità hasidica di Williamsburg a Brooklyn. Sono stata allevata dai miei nonni perché i miei genitori si sono lasciati molto presto e perché mio fratello non era in grado di poterlo fare in quanto aveva dei problemi mentali. A diciassette anni mi sono sposata, a diciannove ho avuto mio figlio e tre anni dopo ho deciso, nel 2009, di lasciare la comunità. Nel 2012 ho scritto il mio primo libro, in cui si parla di cosa significa crescere in questa realtà. Nel 2014 mi sono recata a Berlino, dove ho conosciuto e ho avuto l’occasione di incontrare tutta una serie di artiste con le quali desideravo molto lavorare e il risultato del mio lavoro, anche di parte del mio lavoro con loro, è stata questa mini serie televisiva che è stata prodotta da Netflix. Una serie che si discosta abbastanza dalla realtà”.
Inizia così il dialogo con Deborah Feldman, scrittrice e autrice di Ex Ortodossa (Abendstern Edizioni), il libro da cui è tratta la serie Unorthodox. Un dialogo che viste le circostanze avviene in via telematica, dove gli sguardi e le movenze sono mediate da uno schermo. Ma la voce e il volto di Deborah Feldman accompagnano le parole di questa conversazione che parla di amore, di memoria, di sofferenza e tradizioni. Una storia scoperta da molti nei giorni di quarantena. Una storia che sta appassionando milioni di utenti e creando un dibattito importante, un dibattito necessario forse troppo spesso rimandato.

La rottura con la tua comunità è stato un trauma. Una rottura molto forte. Raccontaci come è avvenuta…
La mia storia è abbastanza diversa rispetto alla serie, dove la protagonista Esty se ne è andata dalla comunità dopo aver saputo di essere incinta. Io sono andata via tre anni dopo aver avuto mio figlio, anche se la decisione era maturata al momento del parto. Non è stata una scelta egoistica, l’ho fatto per mio figlio per evitare a lui la stessa sofferenza che era capitata a me. Sono cresciuta e vissuta in una comunità dove il trauma praticamente regna sovrano, cioè il trauma della Shoah, un trauma che si trasforma in senso di colpa che i sopravvissuti hanno e quindi praticamente tu vivi da sopravvissuto con il senso di colpa di essere nato, con il dovere di sostituire tutti coloro che sono purtroppo andati persi e morti nel corso della Shoah. Vivi nella paura di far arrabbiare ancora una volta Dio contro di te.

È interessante perché il trauma, il senso di colpa, portato da questa esasperazione totale, sembra ricadere all’interno della tua vecchia comunità di appartenenza sempre sul corpo delle donne, sempre sulla vita, sulla libertà delle donne. Per gli uomini esiste sempre un perdono, per le donne non c’è mai indulgenza?
Sono d’accordo con te se vediamo l’intera storia in una prospettiva e la storicizziamo. D’altro canto l‘umanità sono le donne. Sono le donne che fanno crescere una società, anche letteralmente sono le donne che portano le risorse umane, cioè i nuovi uomini, dentro il mondo. Sono le donne che mettono al mondo i bambini. Sono le donne che, da un certo punto di vista, fanno appunto crescere, attraverso il loro apporto di vita, il mondo. In una comunità, in una società come quella in cui sono cresciuta, che si sente particolarmente vulnerabile ed è particolarmente colpita da tutta una serie di paure che gli derivano dalla storia passata, certamente la lotta per la sopravvivenza significa controllare il più possibile le donne, perché tu più controlli le donne più controllo avrai sul tuo futuro e sul tuo benessere. Infatti nella mia comunità si è combattuto in modo duro sia il femminismo, sia tutti i movimenti che davano una certa possibilità alla donna di acquisire una sua indipendenza.

Il tuo rapporto con l’ebraismo oggi qual è?
Se nasci ebreo non puoi smettere di esserlo, ma la percezione che ho del mondo è cambiata. Oggi mi interessa dal punto di vista culturale, la storia, l’arte, la letteratura yiddish, mi interessa in modo particolare il fenomeno dell’illuminismo ebraico che c’è stato in Europa. C’è stato uno scrittore che mi ha influenzata e che amo in modo particolare, ed è Primo Levi, perché lui è stato colui che ha dato la voce ad una comunità, fatta per esempio anche dai miei genitori e dai miei nonni, che non parlavano della Shoah e quindi non mi permettevano di capirla. Quando me ne sono andata via e non ho più potuto neanche fisicamente parlare con i miei genitori e con i miei nonni, lui è stato la loro voce. Avendo letto Se questo è un uomo e Il sistema periodico, le sue parole mi sembravano proprio le parole dei miei nonni, è come se io avessi sentito la loro voce e da quel racconto e da quella narrazione ho tratto la forza, ho tratto l’ispirazione. Quindi anche se non si tratta di un mio atteggiamento meramente religioso è comunque un atteggiamento che ha a che vedere con la spiritualità.

Com’è stato il passaggio da una società chiusa, immersa paradossalmente nella culla del villaggio globale che è New York, ad una dimensione di apertura?
È stato un grande shock quello di andarmene, lo riconosco. Ci vuole tempo, molto tempo, per adattarsi. Ormai ho lasciato la mia comunità da dieci anni a questa parte ed è stato solo recentemente che ho potuto dire di aver raggiunto l’equilibrio. Questo grazie a tutta una serie di decisioni che ho preso, grazie anche all’aiuto che ho avuto da molti amici che mi hanno molto supportata in questo periodo. Certo, quando si prende una decisione di questo genere alcuni ce la fanno altri purtroppo no. Dipende anche molto dallo zeitgeist, dallo spirito del tempo. Per esempio quando sono andata via erano solamente poche decine le persone che lasciavano le comunità così chiuse come la mia, ora sono migliaia le persone che se ne vanno. Il mondo di oggi è sempre più polarizzato nella vita politica, sociale, religiosa. Ci sono sempre frizioni e una lotta verso posizioni sempre più estreme, non c’è più un luogo dove si possa essere moderati, dove si possa arrivare a un compromesso. Una cosa che volevo fare, ed è per questo che mi ha fatto piacere che il mio libro diventasse una serie televisiva, è quella di aiutare a costruire ponti, non certamente aiutare il fenomeno opposto perché è sempre negativa una separazione, perché mi auguro che anche coloro che vivono al di fuori della mia comunità riescano a capire che ci deve essere un bisogno di comprensione dentro il mondo. Mi rivolgo in particolare anche a quelle comunità che si definiscono più moderate. Mi auguro che le comunità ebraiche più moderate riescano a parlare a quelle che sono più chiuse. È solo attraverso il dialogo che si riuscirà a capirsi veramente.

Nella serie Netflix mi ha colpito la magistrale prova di Shira Haas che interpreta il tuo personaggio. Haas, che abbiamo ammirata in Shtisel, a mio avviso, per la sua conformazione corporea, la sua capacità evocativa, la disperazione del suo corpo che è in qualche modo a cavallo tra l’infanzia e l’adolescenza, rende in qualche modo il tuo personaggio, all’interno della serie, estremamente letterario. Sembra quasi un’ombra della storia. La recitazione di Shira sembra rendere tutta la drammaticità interiore. Com’è stato rispecchiarti, riconoscerti o non riconoscerti magari, nel corpo e nella recitazione di Shira.
Quando si fece il casting per trovare l’attrice protagonista e mi dissero che era stata scelta Shira Haas sono saltata letteralmente dalla sedia perché, come giustamente hai detto tu, la prima cosa che mi è venuta in mente è stato il personaggio di Ruchami di Shtisel e infatti saltavo in giro dicendo “Ruchami! Ruchami! È la persona giusta”. In effetti poi, quando ci siamo incontrate per davvero, siamo diventate immediatamente amiche, molto più che amiche, addirittura sorelle. Lei ha letto il mio libro, ne abbiamo parlato lungamente, siamo reciprocamente in contatto ancora adesso, lei viene a trovarmi a Berlino, io vado a trovarla a Tel Aviv e davvero, come giustamente hai sottolineato, c’è qualche cosa di speciale in Shira che non è semplicemente un’attrice ma è veramente un’artista a trecentosessanta gradi, una intellettuale finissima amante della poesia, dell’arte e della letteratura. La sua recitazione è quasi un atto sacro, è come se lei stesse reinterpretando, per esempio. È un’attrice ed è una persona che capisce l’importanza del farsi portatrice di questi messaggi che devono poi essere portati da noi dentro le nostre vite. Il suo ruolo è quindi un ruolo molto silente. Era particolarmente difficile riuscire a trasporre nel silenzio tutti i sentimenti e tutte le idee che frullano nella testa e nel cuore di una giovane ragazza che viene da una comunità di questo genere e lei lo ha fatto in un modo meraviglioso.

Massimiliano Coccia – Pagine Ebraiche giugno 2020

(25 giugno 2020)