Di pietra e di marmo

Qualche veloce considerazione, sperando di non tediare il lettore: com’è più che discutibile abbattere le statue pensando, in qualche modo, non di riscrivere il passato ma di risarcirne, al presente, almeno alcuni suoi aspetti poco o nulla edificanti, così è non meno bizzarro ritenere che quelle statue vadano difese a prescindere, magari istituendo «task force» per la loro tutela. Prima considerazione: si difendono a spada tratta i vivi, non necessariamente i sembianti dei defunti. A volte, chi si affeziona ad una qualche immagine di ciò che fu, rivela di avere in scarsa considerazione ciò che invece è in vita; al pari di chi afferma: «amo gli animali poiché gli umani non li sopporto». Troppo facile, ed auto-assolutorio, rivelando nel qual caso un atteggiamento per il quale si accetta solo quanto è animato, quand’esso però non si esprima se non in forme del tutto consone alle aspettative dei “padroni”. Segnatamente: se parliamo delle schiavitù storiche, non è stato infrequente il compiacimento dei proprietari di anime e corpi laddove essi esaltavano la docilità della sottomissione dei loro subalterni. Al pari di un fatto non solo ovvio bensì “naturale”: sono intimamente inferiori, quindi è nell’ordine delle cose che accettino ciò che è imposto loro da rapporti di forza occultati sotto l’aspetto di un’indiscutibile e immodificabile asimmetria di ruoli, scritta in un qualche ordine spacciato per “divino”. Qualsiasi atto di emancipazione, nasce invece dalla scelta di fare a meno – a volte molto dolorosamente – delle proprie catene. Non cercando l’eterno compiacimento della signoria di turno. Quindi, per tornare ai nostri tempi, si difendono meglio – ossia, in maniera più credibile – i primi, i viventi, se ci si adopera innanzitutto proprio per chi esiste nell’oggi. Ovvero, per il suo reale benessere. Le statue vengono dopo. Altro discorso, beninteso, è la deferenza personale per i morti, che rientra in un ordine di riflessioni completamente diverso. Qui stiamo infatti parlando di ciò che resta di trascorsi personaggi pubblici, nella cui figura si condensano non virtù e vizi personali bensì il senso complessivo di un’epoca. Seconda osservazione: le statue vanno tutelate ma una parte del loro eventuale degrado non è detto che non sia elemento delle trasformazioni che la monumentalizzazione stessa deve a suo modo raccontare, registrandola, al grande pubblico. Quindi, di età, pensieri e atteggiamenti condivisi nel momento in cui si scelse di celebrare un qualcuno o un qualcosa che oggi – invece – leggiamo con lenti diverse. La sensibilità storica, non a caso, registra non esclusivamente i mutamenti di fatto ma anche (e soprattutto) di pensiero e di giudizio rispetto ad essi, alla loro importanza, al senso da attribuirgli. La querelle, assai discutibile, sulla cosiddetta «contestualizzazione» (della serie: all’epoca in cui fu eretta quella statua il pensiero su determinate cose comuni, ad esempio la schiavitù, era radicalmente differente da quello odierno; quindi, non possiamo rivalerci per i torti subiti dalle vittime di allora buttando giù quanto fu eretto a suo tempo) va contemperata con la storicizzazione di simboli, immagini e, soprattutto, significati. Il cui valore, per l’appunto, muta nel tempo. Storicizzare non implica relativizzare (leggasi altrimenti: poiché tutto è “relativo”, ogni elemento si equivale al presente, in una sorte di successione acritica; nel qual caso, avremmo dovuto preservare anche le statue di Hitler) bensì tenere in considerazione l’insieme dei fattori (a propria disposizione, ossia conoscibili) tra quel che fu e ciò che, invece, adesso è per ognuno di noi un valore non negoziabile. Cogliendo come le sensibilità, e quindi le condotte comuni, siano mutate nel tempo. Altrimenti la relativizzazione diventa – letteralmente – giustificazione. Un po’ come nel caso della gigantesca differenza che intercorre tra il comprendere, inteso come il capire i meccanismi (sociali, economici, civili, culturali) che producono certi effetti, a partire dalle tragedie storiche, e la loro acritica condivisione. Quest’ultima è un più che censurabile atteggiamento per il quale, poiché una cosa è avvenuta, avrà senz’altro avuto le sue “ragioni”. Quindi, come è valsa nell’epoca in cui si manifestò, deve in qualche modo valere anche per l’oggi. Quantomeno sul piano simbolico. Magari nel nome di una falsa equivalenza di ragioni. Per intenderci, è questo il meccanismo che equipara, in storia, regimi e vicende tra di loro altrimenti diverse, stabilendo una specie di uniformità poiché, in fondo, tutti avrebbero un qualche peccato da farsi perdonare. Le “buone intenzioni” non sono un viatico per le assoluzioni. Ci sono i tribunali penali che giudicano al riguardo; quelli morali, che dovrebbero valere per coloro che hanno un coscienza; infine, quelli della storia, che spesso si rivelano capricciosi ma, nel loro mutare di giudizi e sentenze, rivelano come l’animo umano sia oltremodo capace di mutare. E meno male.

Claudio Vercelli

(28 giugno 2020)