Ascarelli e il diritto ebraico
Sono passati quasi due anni da un lavoro di Tommaso Gazzolo (Una doppia appartenenza. Tullio Ascarelli e la legge come interpretazione, Imago Iuris, Collana diretta da Luigi Garofalo, Pacini Editore, Pisa, 2018) che dovrebbe interessare il rabbinato italiano, come ultimo depositario della cultura ebraica in campo giuridico, data la dissolvenza (ma avrei voluto scrivere “fading” se ciò non si prestasse a malintesi culturali) del pensiero ebraico dalla scena giuridica nazionale, quale manifestazione postuma e non codificata degli effetti delle leggi razziste. Cito il rabbinato, quindi, quale padrone degli strumenti necessari per un confronto con la provocazione/scoperta di questo prolifico ricercatore dell’ateneo di Sassari, che chiama in causa l’influenza del pensiero ebraico nell’opera di quel gigante del giure che è stato Tullio Ascarelli (da ultimo, vedi M. Stella Richter jr., Cinque Storie Ascarelliane, Giur. Comm., 2020, p. 243/I: “La madre di Tullio, Elena, era figlia di un importante industriale tessile, Pellegrino Pontecorvo: le sue fabbriche a Pisa, dopo molti decenni di attività e di espansione, confluirono nel 1938, con le leggi razziali, nelle industrie Marzotto. Elena ebbe ben nove fratelli. Uno di questi era Massimo Pontecorvo, padre di Guido (1907-1999), noto genetista e micologo, di Bruno (1913-1999), famoso fisico, del regista Gilberto, detto Gillo (1919-2006) e di altri cinque figli. Una sorella di Elena, Clara Pontecorvo, sposò Alberto Colorni e dal matrimonio nacque Eugenio (1909-1944), intellettuale antifascista, promotore del movimento federalista europeo, ucciso dai nazisti a 35 anni, medaglia d’oro della Resistenza. Un’altra sorella, Alfonsa, sposò Samuele Sereni, medico della Real Casa: loro figli furono, oltre a Enrico e Lea, Enzo (1905-1944), pioniere sionista ed eroe della resistenza, il quale sposò Ada Ascarelli (14) (la quale era a sua volta cugina di Tullio, questa volta per via di padre; Ada era infatti figlia di Ettore Ascarelli fratello maggiore del padre di Tullio) ed Emilio Sereni (1907-1977), esponente comunista, deputato e senatore, ma soprattutto sommo studioso di storia e politica agraria. Personaggi della levatura di Eugenio Colorni, Enzo ed Emilio Sereni, Ada Ascarelli, e Guido, Bruno e Gillo Pontecorvo erano, dunque, cugini di Tullio” (p. 247/I)..
Il quale Ascarelli continua ad essere studiato a 61 anni dalla sua immatura scomparsa, tant’è che Carmelita Camardi, sostiene, or ora, che “indipendentemente dalla pregevole produzione scientifica su temi tradizionalmente appartenenti al diritto commerciale, al diritto civile o comparato, accostarsi oggi al pensiero di Tullio Ascarelli significa incontrare un’autentica visione del mondo sub specie iuris caratterizzata da un eclettismo tutt’altro che casuale o disordinato, coltivato senza mai perdere di vista l’importanza di conservare a questa visione del mondo la sua funzionalità alla soluzione normativa dei casi concreti della vita” (Creatività, storicità e continuità nella teoria dell’interpretazione di Tullio Ascarelli, Riv. Tim. Dir e Proc. Civ., 2020, p. 69 ss). Non basta: la Camardi scrive pure che Ascarelli è stato ripreso senza essere sempre citato, un concetto che al netto del galateo rasenterebbe il plagio. Soprattutto, la Camardi cita (p. 75, nota 20) l’assunto di Gazzolo circa l’influenza della cultura ebraica sul pensiero di Ascarelli. D’altronde, in Antigone e Porzia (Riv. int. fil. dir., 1955, p. 765, dove latita però il riferimento al principio d’affidamento) Ascarelli cita direttamente il Talmud. L’influenza del diritto ebraico, però, a nostro giudizio, si porrebbe più sul piano metodologico che su quello contenutistico, anche se questo punto andrebbe sviluppato, se ritenuto meritevole, in una diversa ed apposita sede.
Nel sostenere la natura creativa dell’interpretazione (Camardi, cit., p. 76) possiamo compiere un passo ulteriore per nostro conto, asserendo che Ascarelli si contrappone alle visione ancora dominante nel nostro sistema, che ravvisa nel diritto un fenomeno di laboratorio da scoprire, perché se si crea si costruisce in prima persona, mentre se si scopre si svela la costruzione altrui. Nel passo del Talmud citato da Ascarelli ciò è palese, laddove l’impegno non ha per oggetto la ricerca del disegno divino bensì di quello umano. Per chi abbia dimestichezza col giure, la differenza è determinante, perché un conto è fornire un’interpretazione sistematica, altro è costruire una dogmatica concettualistica incurante dell’argomento apagogico e, in ultima analisi, della logica stessa.
Nel pregevole scritto della Camardi, si cita (p. 90) il pensiero di Ferri sul contrasto fra il pensiero ascarelliano e la visione piramidale di Hans Kelsen (anch’egli ebreo, però convertito per poter assumere ruoli importanti in Austria) ma nelle conclusioni (p. 99) nel riportare che “l’interpretazione non è «ripetizione», ma «atto di volontà se pure vincolato a un dato” l’accostamento a Kelsen sembrerebbe palese.
Nell’ambito ermeneutico, molto dovremmo apprendere da Roberto Calvo (In claris non fit interpretatio: chiarezza espositiva ed ermeneutica giuridica, Riv. D. privato, 2010, p. 6) quando lucidamente spiega che “nella materia che stiamo affrontando una cosa è accreditare coscienziosamente la lettura correttiva (o manipolativa) del testo che, quantunque prima facie scevro d’ambiguità o immune da fraintendimenti, non sia tuttavia riuscito a esprimere in modo completo e fedele la comune intenzione, altra è lasciarsi abbagliare da interpretazioni eterodosse e imprevedibili, tese a surrogare l’intenzione delle parti con la Weltanschauung del giudice 21, il quale si fa così ammaliare o condurre dal suo spirito paternalistico o, peggio, dalla sua attitudine alla partigianeria”.
Il suo discorso potrebbe portare difilato ad una visione culturale dell’interpretazione, più vicina allo strutturalismo che alle correnti visioni del diritto, i cui danni dovrebbero essere palesi. In questo senso, proporremmo che oltre ai versanti della legittimità e del merito, non si continui ad ignorare l’influsso della cultura dominante (se non addirittura egemonica) che si scorge ad occhio nudo, considerando che capire è un dovere scientifico mentre deprecare, se non addirittura demonizzare, è un‘operazione che non appartiene alla sfera del giuridicamente rilevante. Anche in questo senso, con l’auspicio di rimanere sul piano della sola scienza, il contributo di Gazzolo, con la sua importante monografia, andrebbe considerato anche nell’ambito delle conseguenze delle leggi razziali sulle scienze giuridiche. Purché non si trascuri il fatto che il solo moralismo è un’insidia da scansare, se non altro perché potrebbe diventare indistinguibile dal suo contrario.
Emanuele Calò, giurista
(30 giugno 2020)