Machshevet Israel
Veritas filia temporis?
Chi ritenesse che tutte le opinioni o i punti di vista su una determinata questione siano uguali o si equivalgano non sarebbe un democratico, sarebbe solo un cretino (Aristotele usa un termine più duro, che non cito). La democrazia è il sistema che offre a tutti la possibilità, e persino il diritto, di esprimere la propria opinione, non il sistema che garantisce il riconoscimento che tutte le opinioni espresse siano ugualmente intelligenti o sagge. Altrettanto stupido sarebbe chi pensasse che il giudaismo è un sistema religioso dove ogni prospettiva sia vera e nel quale pluralismo significhi everyting goes, come se la Torah fosse un salotto di piacevoli conversari, in cui, a differenza che in altri salotti, è permesso parlare di religione e di politica. Insomma, esiste un problema di veritas anche nel giudaismo, sia in senso teoretico sia in senso pratico: ne va della rivelazione. E ne va di conseguenza della tradizione. Come debba essere compresa questa emet/veritas, in se stessa o in rapporto alle diverse prospettive/opinioni che la esprimono, è già questione intrinseca a un approccio ebraico alla verità, anche nel caso in cui rivelazione e tradizione venissero sfidate – challenged – attraverso l’idea della veritas filia temporis.
Su quest’idea occorre riflettere, specie in un frangente storico iconoclasta come quello che stiamo vivendo da settimane, in cui le statue sono imbrattate di rosso (per alludere al sangue) o rovesciate. Il mondo ebraico, ab initio, ebbe un esplicito divieto di ‘farsi statua alcuna’, fesel in ebraico, da cui viene l’aggettivo ‘fasullo’ cioè falso. Ogni statua, nel suo fissare qualcosa che era vivo, tradisce le dinamiche esistenziali del raffigurato e, in quanto tale, falsifica la storia perché ne riduce la complessità, spesso instaura un culto improprio, anche se laico, una specie di ‘avodà zarà (ah, saggezza della Seconda Parola!). Tornando alla veritas filia temporis, siamo anzitutto dinanzi all’ovvio senso per cui l’affermazione tende a relativizzare, in modo formale, ogni verità che si proclami tale. Come a dire: ogni epoca ha la sua verità, e dunque non esiste una verità in assoluto; la verità dipende dai luoghi e dai tempi storici di chi crede che una certa cosa sia vera, salvo essere probabilmente smentito da chi crederà diversamente circa quella stessa cosa in altro luogo e in altra epoca. Se la verità dipende dal soggetto storico, sono le condizioni storiche che fanno la verità (è quel che in filosofia si chiama storicismo, un altro nome per relativismo). Chi si oppone a quest’approccio argomenta invece che non tutto è frutto delle condizioni e dei condizionamenti storici, che esistono ‘valori universali’, ‘non negoziabili’, ecc. (tipo: i diritti dell’uomo); e sebbene la lista di questi valori assoluti non sia sempre assoluta (ché, a volte cambia anche in casa dei paladini dell’universalità valoriale), l’universalista vuole che la verità sia una e unica, almeno quella che si sottrae alle vicende storiche. E in nome di siffatta veritas transtorica contesta spesso le pretese veritative del passato, le ‘narrazioni statuarie’ per così dire (che in effetti hanno quasi sempre scopi celebrativi), ricadendo in un circolo ermeneutico vizioso.
Evidentemente la tentazione delle statue è nota al mondo ebraico sin dai tempi di Moshe rabbenu, che cercò di prevenirla cominciando col vietare il proprio monumento funebre (il contrario di quel che fece papa Giulio II che commissionò, per immortalarsi, proprio una statua di Mosè). Poiché ogni epoca ebraica non è priva di qualcuno come Mosè, ha ragione rav Irving Greenberg quando dice che “ogni generazione vivente ha il dovere di rivisitare l’eredità che riceve”, e in questa rivisitazione – un revisionismo positivo che gli storici seri (non ideologizzati) apprezzano – v’è spazio per discernere luci (virtù) e ombre (nefandezze), esaltare le prime e stigmatizzare le seconde perché non vengano imitate. Veritas filia temporis non è un proclama di relativismo o di relatività valoriale, ma un’assunzione di responsabilità e di solidarietà nel bene e nel male: risponda ciascuno di suo fratello e ogni generazione di chi l’ha preceduta. In una lettera a Margarete Susman, del 1914, il filosofo marxista eterodosso Ernst Bloch scrive: “La relatività, che in quanti non sono religiosamente dotati né professano una qualche forma di religione agisce come un veleno, nell’ebraismo è divenuta un motivo stesso della religione: esso [l’ebraismo] è sempre eretico, perché è sempre un anelito, un mezzo aver-oltrepassato e una mistica”. Nello spirito che unisce tra loro gli ebrei albergherebbe, secondo il Bloch che scrive alla vigilia del primo conflitto mondiale, una “grandiosa insoddisfazione” per qualsiasi compimento, per ogni verità finale e definitiva, per ogni regno che si autoproclami il Regno. È da questa prospettiva, sull’ebraismo e a partire dall’ebraismo, che Bloch scriverà il suo Spirito dell’utopia (nel 1918) e più tardi quel capolavoro ostico e inattuale e giustamente controvertibile, davvero filius temporis, che è Il principio-speranza (1959). L’insoddisfazione davanti alle verità che si autocelebrano tali non è il motore dell’aniconismo ebraico e di ogni monito contro l’idolatria?
Massimo Giuliani, Università di Trento
(2 luglio 2020)