Un’altra scuola possibile
Tutti ci auguriamo che questi mesi di didattica a distanza siano finiti per davvero, e non li rimpiangeremo.
Tuttavia non me la sentirei di affermare che questa esperienza non ci abbia lasciato proprio nulla di positivo. È un tema che molti discutono da mesi e le cose più importanti sono già state dette, ma vorrei soffermarmi su tre elementi apparentemente secondari che mi sembrano meritare più attenzione di quella ricevuta finora e che, abbattendo tabu immutabili di decenni, aprono forse le porte verso un’altra scuola possibile, meno rigida e più accogliente.
Il primo è una maggiore flessibilità nelle presenze. Abbiamo imparato che si può benissimo interrogare due, tre o quattro allievi e lasciare che tutti gli altri non si connettano. Ci siamo liberati dal mito dell’obbligo di presenza per tutti sempre e comunque indipendentemente da ciò che si sta facendo, e dall’idea della classe come insieme di persone che devono fare sempre contemporaneamente le stesse cose salvo rare e documentate eccezioni; due vincoli che ormai la scuola non si può più permettere.
Il secondo elemento è stato la maggiore flessibilità negli scritti di italiano, consentita a fine anno grazie all’assenza della prima prova dell’esame di stato. È quasi incredibile quanto gli allievi scrivano meglio quando possono lasciare spazio alla propria creatività. Capisco che non possono passare cinque anni a scrivere solo racconti, ma forse sarebbe il caso di pensare a tracce più aperte, meno vincolanti, che non mortifichino l’originalità e il piacere della scrittura.
Il terzo elemento (che riguarda i licei classici) è stata la liberazione dalla tirannia delle versioni grazie all’assenza della seconda prova scritta, che quest’anno era sostituita dalla discussione di un elaborato preparato dagli allievi. Inutile dire quanto sia stato interessante per noi insegnanti di altre materie sentir parlare di imperialismo, tempo, verità, amore, parodie letterarie e di tanto altro (sì, anche di morte, angoscia, disperazione, corruzione, decadenza, ma pazienza: si sa che il programma dell’ultimo anno non è il massimo dell’allegria), anziché ascoltare per quaranta o cinquanta volte la correzione degli stessi errori grammaticali. Già si era fatto un passo avanti nella seconda prova dell’anno scorso in cui oltre alla traduzione era richiesto un commento, ma la griglia ministeriale premiava soprattutto la traduzione. Credo che un più radicale spostamento dell’attenzione dalle lingue ai contenuti che esprimono farebbe bene anche alla lingue stesse, che sono percepite come morte ma che i ragazzi potrebbero sentire più vive grazie ai messaggi significativi che ci trasmettono.
E, a questo proposito, vale la pena di notare una cosa: il programma di letteratura dell’ultimo anno, tra greco e latino, copre il periodo in cui gli ebrei entrano in contatto con il mondo greco e poi romano, l’inizio della presenza ebraica in Italia, le rivolte e la distruzione del secondo Tempio, la nascita del cristianesimo e la sua progressiva diffusione, il divorzio dall’ebraismo con tutte le conseguenze che ne sono seguite. Un periodo delicatissimo, forse proprio quello in cui nascono i tanti pregiudizi antiebraici oggi ancora vivi. Chissà se uno studio più approfondito dei testi di quel periodo – con una maggiore attenzione ai contenuti e non solo alla lingua, allo stile e alle figure retoriche – non potrebbe contribuire almeno in parte ad una conoscenza meno superficiale della cultura ebraica?
Anna Segre, insegnante
(3 luglio 2020)